Il Museo Egizio di Piazza Tahrir al Cairo: prodigi e inadeguatezze
- The Introvert Traveler
- 16 set
- Tempo di lettura: 16 min

Ultima visita: agosto 2025
Mio giudizio: 8 per il museo, MUST SEE per Tutankhamon
Durata della visita: 4 ore
Premessa: Questo è un post "instant obsolete". Il Museo Egizio di Piazza Tahrir, che per un secolo è stato un'istituzione culturale di primo piano a livello mondiale, tra poche settimane (attualmente si parla del primo di novembre) dovrebbe passare il testimone al Grand Egyptian Museum di Giza.
Le notizie sul futuro dello storico museo al momento sono contrastanti; è quasi certo che resterà aperto, continuando ad esporre numerose opere che per decenni sono state rinchiuse nei magazzini, non trovando spazio espositivo, ma è verosimile che non attirerà più le grandi masse di turisti e viaggiatori che ha attirato per tutta la sua esistenza. Da alcuni articoli che ho letto online, sembrerebbe che non sia ancora sicuro il trasferimento della maschera d'oro di Tutankhamon, il cui trasferimento sarebbe vincolato dalla legge egiziana; se così fosse, ovviamente, il vecchio museo del Cairo ha davanti a sé una fulgida eternità, se invece il tesoro di re Tut dovesse integralmente essere trasferito nel nuovo museo, il vecchio museo diventerebbe più che altro un rifugio per archeologi di professione e appassionati del settore, vedendo sparire per sempre le grandi masse dai propri corridoi.

Una fondazione legata alla stagione pionieristica dell’archeologia egizia
Il museo viene inaugurato nel 1902, in pieno periodo coloniale, quando l’Egitto era formalmente sotto la sovranità ottomana ma di fatto amministrato dagli inglesi. La costruzione dell’edificio, affidata all’architetto francese Marcel Dourgnon, si colloca in una stagione in cui l’archeologia egizia era non solo una disciplina scientifica, ma anche un potente strumento di prestigio politico e culturale. Dopo decenni di scavi spesso condotti in modo predatorio da missioni europee, si impose progressivamente l’idea di dotare l’Egitto di un museo nazionale, capace di conservare e valorizzare le proprie antichità senza che queste venissero disperse nei musei di Londra, Parigi o Berlino.
L’edificio, in stile neoclassico sobrio, fu concepito come un grande contenitore funzionale, privo di orpelli decorativi orientalistici. Ciò rifletteva una precisa scelta: offrire un’istituzione museale “moderna”, secondo i canoni occidentali, e dunque inscrivere l’Egitto in quel circuito internazionale delle nazioni colte che si riconoscevano nella monumentalità dei musei ottocenteschi. Il museo di Tahrir, sin dall’inizio, si configurò come un gesto politico: dichiarare che l’antico Egitto non apparteneva soltanto all’immaginario europeo, ma era soprattutto patrimonio del Paese che lo aveva generato.
Il ruolo del museo egizio del Cairo nella storia dell’archeologia
Nel corso del Novecento, il Museo Egizio divenne uno dei grandi depositi della memoria faraonica. Fu qui che confluirono i frutti di missioni epocali: basti pensare alla scoperta della tomba di Tutankhamon da parte di Howard Carter nel 1922, il cui tesoro, destinato a rimanere in Egitto, fu collocato quasi integralmente nelle sale del museo e rappresenta tuttoggi la sua principale attrattiva.
Il Museo Egizio non fu mai un museo ordinario. Più che un’esposizione pensata per il grande pubblico, fu un gigantesco deposito organizzato, dove si accatastavano sarcofagi, statue, steli, papiri, gioielli, mummie. La quantità di reperti è immensa: si parla di oltre 120.000 pezzi, molti dei quali non visibili al pubblico.
Il ruolo del museo, tuttavia, non va letto soltanto in chiave scientifica. Esso rappresentò un laboratorio della modernità egiziana. Le élite nazionaliste, negli anni Venti e Trenta, videro nell’antico Egitto il simbolo di una continuità storica capace di rivendicare l’autonomia dall’Occidente e di legittimare la costruzione di uno Stato moderno. Così, la collezione faraonica diventava un argomento politico: la prova tangibile che l’Egitto aveva una civiltà millenaria, anteriore e superiore a quella di qualunque colonizzatore.
Il museo e la Primavera Araba: un simbolo in pericolo
Uno dei momenti più drammatici della storia recente del museo si consumò nel gennaio 2011, quando Piazza Tahrir divenne il cuore pulsante della rivoluzione che avrebbe portato alla caduta del presidente Hosni Mubarak. Le cronache raccontano di una notte convulsa, durante la quale bande di saccheggiatori penetrarono nell’edificio, danneggiando teche e trafugando alcuni reperti.
Il museo rischiò seriamente la distruzione. Solo l’intervento di cittadini volontari, che formarono una sorta di cordone umano attorno all’edificio, impedì il peggio. Le immagini delle vetrine infrante e delle statue mutilate fecero il giro del mondo, simbolo eloquente della vulnerabilità del patrimonio culturale in tempi di crisi politica.
Il museo uscì da quell’episodio con ferite non soltanto materiali, ma anche simboliche. La sua integrità non era più scontata; la sua funzione identitaria veniva messa in discussione dal caos della piazza. Per molti osservatori internazionali, la vicenda rivelò quanto fragile fosse la tutela del patrimonio in Egitto, in un contesto segnato da corruzione, mancanza di fondi e instabilità politica.
Il passaggio di consegne al Grand Egyptian Museum (GEM)
Con il nuovo millennio, divenne sempre più evidente che il museo di Tahrir non era più adeguato a ospitare la collezione faraonica. Gli spazi erano saturi, le condizioni di conservazione problematiche, gli standard museografici obsoleti. Nacque così l’idea del Grand Egyptian Museum (GEM), un gigantesco progetto edilizio avviato nei pressi delle Piramidi di Giza, pensato per diventare il più grande museo archeologico del mondo.
Il GEM, la cui inaugurazione ufficiale è stata più volte rinviata (un destino comune a molti grandi progetti egiziani), rappresenta una sorta di trasferimento di capitale simbolico: dall’antico edificio ottocentesco del centro città a una nuova struttura monumentale, concepita secondo i criteri museali contemporanei. Qui dovrebbe essere trasferito l’intero tesoro di Tutankhamon, insieme a migliaia di reperti attualmente stipati nei magazzini di Tahrir.
Tuttavia, la prospettiva non è priva di contraddizioni. Se da un lato il GEM promette tecnologie di conservazione all’avanguardia e un’esperienza museale immersiva, dall’altro segna un impoverimento per il museo di Piazza Tahrir, che rischia di trasformarsi in un’istituzione residuale. Molti egiziani temono che l’antico museo, privato delle sue collezioni più celebri, perda il suo prestigio e venga ridotto a una sorta di anticamera secondaria del GEM.
I principali manufatti
Tra le innumerevoli opere conservate nel museo di Tahrir, alcune meritano un richiamo particolare, non soltanto per la loro bellezza, ma anche per il valore simbolico che hanno assunto nella storia dell’archeologia.
Il tesoro di Tutankhamon: il celeberrimo corredo funerario, composto da migliaia di oggetti, tra cui la magnifica maschera d’oro e i sarcofagi antropomorfi, rappresenta il cuore della collezione. È anche la principale attrattiva turistica, il motivo per cui milioni di visitatori hanno varcato la soglia del museo.
La statua di Chefren: scolpita in diorite, raffigura il faraone seduto sul trono con il falco Horus che lo protegge. È uno dei massimi esempi di scultura regale dell’Antico Regno.
La tavoletta di Narmer: è una tavoletta e una lastra votiva e un importante reperto archeologico egizio, datato attorno al XXXI secolo a.C., contenente alcune delle più antiche iscrizioni geroglifiche rinvenute. E' al contempo un pregevole manufatto da un punto di vista artistico e uno straordinario reperto storico che marca di fatto l'inizio dell'era egizia.
Le mummie reali: benché oggi molte siano state trasferite al National Museum of Egyptian Civilization, il museo di Tahrir rimaneva per decenni il luogo in cui si potevano ammirare i corpi imbalsamati dei faraoni, da Ramses II a Seti I. L’esperienza, di forte impatto emotivo, alimentava la fascinazione per il potere conservatore delle tecniche egizie.
La stele di Merneptah: celebre per contenere la più antica menzione del nome “Israele”, costituisce un documento capitale per la storia biblica.
La collezione di papiri: straordinario deposito di testi letterari, religiosi e amministrativi, che testimoniano la ricchezza della cultura scritta egizia.
Questi pezzi non sono semplici reperti: sono icone globali, divenute simboli stessi dell’antico Egitto e della sua perenne capacità di stupire.

La tavoletta di Narmer
La cosiddetta tavoletta di Narmer, in scisto verde, databile intorno al 3100 a.C., è uno dei manufatti più emblematici dell’arte protodinastica egizia; è opportunamente collocata in prossimità dell'ingresso del museo ed è la prima opera su cui consiglio di soffermarsi, non solo per la qualità scultorea del manufatto, che porta benissimo i suoi 5000 anni di età, ma anche per la sua importanza storica e archeologica.
L’opera, alta circa 64 cm, fu concepita come oggetto cerimoniale e non per uso pratico, come invece le comuni palette da cosmetici. La composizione rivela già quella che diventerà la grammatica visiva canonica dell’arte faraonica: il sovrano rappresentato in scala gerarchica (ovvero rappresentato non in una prospettiva naturale, ma in dimensioni proporzionali alla sua importanza), colto nell’atto di sottomettere il nemico, l’uso della prospettiva gerarchica e del registro narrativo, la sintesi tra simbolismo politico e forma artistica. Sul recto Narmer appare con la corona bianca dell’Alto Egitto, mentre sul verso indossa la corona rossa del Basso Egitto: una duplicità che allude alla compiuta unificazione delle Due Terre sotto un’unica autorità.
Dal punto di vista archeologico, la tavoletta costituisce un documento capitale: fornisce la più antica rappresentazione figurativa di un faraone identificabile per nome, segna il momento fondativo della regalità egizia e testimonia l’uso dell’arte come strumento di legittimazione politica e religiosa. Narmer fu il primo faraone della prima dinastia; la tavoletta di Narmer può essere considerata il monumento fondativo dell'Egitto dinastico.
Oltre alla formidabile importanza storica e alla qualità artistica, si tratta comunque di un'opera di grande fascino; leggendola con attenzione vi si può leggere la nascita di un sanguinario regno militarista che ha segnato la storia e governato per millenni, insieme a motivi protostorici che affondano le proprie radici in tempi ancora più remoti, come i serpopardi dai colli serpentiformi.
Tutankhamon
Dedicato il tempo necessario alla tavoletta di Narmeer non ci si può esimere dal visitare immediatamente il grande protagonista del museo Egizio del Cairo: re Tut. La sua collezione si trova al primo piano, imboccate le scale che portano al primo piano e percorrete tutto il corridoio che porta sull'altra estremità del palazzo. Il primo formidabile reperto che vi troverete davanti, subito fuori dalla sala che ospita gli altri e più celebri corredi del re bambino, è il trono d'oro. Si tratta di un'opera sensazionale, che immeritatamente non gode di una fama paragonabile alla maschera d'oro o al sarcofago.
Realizzato in legno rivestito da lamine d’oro e arricchito con paste vitree, lapislazzuli e pietre semipreziose, il trono colpisce per l’eleganza della sua struttura e per la vivacità cromatica che ancora oggi conserva. Lo schienale reca una scena di grande delicatezza: Tutankhamon siede in atteggiamento rilassato mentre la regina Ankhesenamon, in un gesto di intimità sorprendente per l’arte faraonica, gli applica un unguento sulle spalle. L’iconografia, lungi dall’essere puramente ornamentale, rivela la dimensione privata e quasi affettuosa della coppia regale, in un linguaggio visivo che mescola regalità e vita quotidiana. I dettagli tecnici – i braccioli a forma di leoni, i poggiapiedi decorati con nemici calpestati, le ali policrome di falco che avvolgono il trono – testimoniano la perizia estrema degli artigiani della XVIII dinastia e fanno del manufatto non solo un capolavoro dell’oreficeria, ma anche un documento prezioso della sensibilità artistica del periodo amarniano, ancora intrisa di naturalismo e di gusto per la rappresentazione dell’intimità familiare.
Il trono d’oro di Tutankhamon non è soltanto un capolavoro artistico, ma anche una testimonianza preziosa della fase storica in cui fu realizzato: la delicata transizione dall’esperimento religioso di Akhenaton alla restaurazione dei culti tradizionali sotto il giovane Tutankhamon.
La scena raffigurata sullo schienale, con la regina Ankhesenamon che unge le spalle del faraone, richiama ancora l’estetica amarniana: intimità domestica, gestualità spontanea, attenzione ai dettagli naturalistici. Questi tratti, inediti nell’iconografia regale egizia fino ad Akhenaton, rivelano quanto la sensibilità artistica del periodo continuasse a risentire dell’influsso della rivoluzione amarniana. Eppure, il trono non è un manufatto “eretico”. La presenza di Horus falco, protettore della regalità, e i simboli di dominio (leoni, nemici sottomessi) segnalano chiaramente il ritorno alla tradizione iconografica consolidata, in cui il faraone è garante dell’ordine cosmico (Maat) e signore vittorioso sui popoli stranieri.
Il trono riflette dunque un compromesso ideologico: da un lato, conserva il gusto per la rappresentazione privata e quasi affettiva introdotta da Akhenaton e Nefertiti; dall’altro, riafferma gli elementi di legittimazione divina e politica funzionali alla restaurazione teologica voluta dagli alti sacerdoti di Amon. È significativo che Tutankhamon, salito al trono giovanissimo, cambiò il proprio nome da Tutankhaton (“immagine vivente di Aton”) a Tutankhamon (“immagine vivente di Amon”), segnando il definitivo abbandono del culto monoteistico di Aton.
In questo senso, il trono non è solo un arredo regale, ma un manifesto politico visivo: una dichiarazione in oro e pietre preziose che il sovrano e la sua consorte, pur immersi in una dimensione privata, erano saldamente reinseriti nel solco della religione tradizionale. La commistione di intimità e potere, di naturalismo amarniano e simbolismo classico, fotografa con rara efficacia quel momento di passaggio in cui l’Egitto cercava di chiudere la parentesi rivoluzionaria ed eretica di Akhenaton senza disperdere del tutto l’eredità artistica da lui introdotta.

Il collocamento del trono al di fuori della piccola e buia sala che ospita i tesori più celebri di Tutankhamon mi sembra un'astuta scelta museale per preparare per gradi il visitatore a ciò che lo attende poco più avanti; come ho detto, infatti, il trono è un'opera sbalorditiva che avrebbe ben altra fama se non avesse avuto la cattiva sorte di apparetenere a un corredo in cui erano incluse opere ancor più stupefacenti e mi riferisco ovviamente, in particolare, alla celeberrima maschera d'oro di Tutankhamon. Collocare il trono fuori dalla sala, al suo ingresso, prepara per gradi il visitatore allo choc della vista di uno delle più sensazionali, abbaglianti, sbalorditive, sconcertanti, ipnotiche opere che siano mai state create.

Di fronte alla maschera d'oro di Tutankhamon sono rimasto ammutolito e attonito come mi è accaduto con poche altre opere al mondo; l'abilità orafa nel realizzare un'opera di tale pregio oltre 3000 anni fa lascia senza parole; il fascino del volto del monarca, immortalato per l'eternità nei suoi lineamenti fanciulleschi, è estremo e ipnotico; la qualità della realizzazione è incomparabile rispetto ad altre maschere conservate nel museo (nella galleria qui sotto metto, a margine di qualche foto della maschera di Tutankhamon, la foto della maschera di re Psusennes I, che pur essendo un mirabile reperto, impallidisce evidentemente al confronto con la più celebre maschera d'oro ed è totalmente ignorata dai visitatori che vi passano accanto senza degnarla di un solo sguardo), ma contemplando l'opera viene naturale chiedersi chissà quali altre sorprendenti opere questa civiltà avesse prodotto, che si sono perse nel tempo senza arrivare fino a noi; allo stesso modo, viene naturale pensare a chi fosse l'ignoto, formidabile artista che 3000 anni fa ha realizzato questa opera immensa, per poi essere condannato all'oblio dalla Storia, che più meritoriamente avrebbe collocarne il nome nella memoria collettiva a fianco di altri giganti come Michelangelo o Bernini o Cellini.
Nel mese di agosto, periodo di bassa stagione per il Cairo e per l'Egitto, contrariamente alle mie infauste previsioni, la maschera d'oro non era assaltata da orde di turisti intenti a scattare selfie; la sala era, sì, affollata, ma non in misura tale da non poter fruire dell'opera a proprio piacimento anche per decine di minuti; da questo punto di vista un plauso va anche alle autorità del museo, che hanno imposto una rigida politica "no photo" all'interno di questa sala; ciò comporta ovviamente qualche problema; da un lato, per me, appassionato di fotografia, non aver potuto fotografare la maschera se non furtivamente con qualche maldestro scatto rubato, ha comportato un vincolo mal sopportabile; inoltre la "no photo rule" comporta di dover contemplare l'opera disturbati dei continui strilli "no photo inside" dei guardiani, che contemporaneamente sollecitano clandestinamente i turisti a elargire tangenti clandestine per sospendere provvisoriamente la sorveglianza; ma l'innegabile vantaggio è la tutela dell'opera dagli imbecilli del selfie.
La maschera funeraria d’oro di Tutankhamon, alta 54 cm e pesante circa 11 kg, è forse il manufatto più celebre dell’arte egizia, ma la sua rilevanza trascende l’impatto estetico. Realizzata in oro massiccio con intarsi di lapislazzuli, corniola, ossidiana, turchese e paste vitree, la maschera non era un mero oggetto ornamentale, bensì un dispositivo rituale destinato a garantire al sovrano l’eternità. L’oro, metallo incorruttibile, alludeva alla carne degli dèi, mentre le pietre dure evocavano valori cosmici: il blu dei lapislazzuli richiamava il cielo e l’infinito, il rosso della corniola il potere vitale del sole. L’iconografia è rigorosamente canonica: volto idealizzato, nemes a strisce blu e oro, uraeus e avvoltoio sulla fronte come simboli dell’Alto e del Basso Egitto, barba posticcia intrecciata a segnalare la divinità del re defunto. Ma accanto alla perfezione formale, la maschera riveste un ruolo storico di primaria importanza: rappresenta la traduzione materiale della concezione egizia della regalità come entità eterna e sovrumana. Analisi recenti hanno inoltre suggerito che la maschera fosse stata originariamente concepita per un’altra persona, forse una regina, poi adattata a Tutankhamon, a riprova della natura affrettata della sua sepoltura. In questa tensione tra raffinatezza tecnica, significato religioso e contingenze storiche, la maschera si rivela non solo un capolavoro estetico, ma anche un documento insostituibile per comprendere la mentalità funeraria e politica dell’Egitto del Nuovo Regno.
La sala di re Tut contiene anche altri tesori, in particolare i due sarcofagi, uno in legno laminato d'oro, e l'altro in oro massiccio (breve pausa per riflettere sul sarcofago interamente realizzato in oro massiccio). Il sarcofago in oro è un'altra opera sbalorditiva, la cui celebrità, al pari del trono, è offuscata dalla maschera; anche in questo caso riesco a pubblicare solo una foto sottratta furtivamente; come la maschera, il sarcofago d'oro è un'opera di una qualità sconcertante e di una bellezza e ricchezza (non solo in senso materiale) abbagliante; a mio giudizio meriterebbe di essere collocata in posizione verticale in mezzo alla stanza, anziché in posizione supina che ne impone una visione laterale; ciononostante, anche questa è un'opera che rapisce lo sguardo e raccomando di prendersi tutto il tempo necessario per leggere ogni finissimo dettaglio di decorazione e oreficeria di questo inestimabile manufatto dalla storia millenaria.

E' possibile che dedichi un intero post in futuro al tesoro di re Tut; per il momento mi limito a menzionare che al momento non sono stato colto dalla famigerata maledizione di Tutankhamon, su cui eventualmente mi soffermerò qualora decidessi di realizzare un intero post ad hoc, tuttavia dopo la contemplazione del tesoro di Tutankhamon ho sofferto di dissenteria per settimane, e i più superstiziosi potrebbero pensare che ciò non sia stato dovuto al cibo e al sistema idrico del Cairo.
Ho menzionato poco sopra la maschera d'oro di Psusennes I, che si trova in una stanza adiacente a quella di Tutankhamon, come termine di paragone deteriore rispetto alla qualità sopraffina della maschera d'oro. Un'ultima menzione, prima di passare ad altre opere, penso che vada anche al sarcofago d'argento di Psusennes I; così come ho menzionato l'ignoto autore della maschera e l'iniquità con cui la storia ha trattato la sua memoria, penso che lo stesso Psusennes meriti una menzione per la modesta fortuna che la storia gli ha riservato; nell'antico Egitto, infatti, l'argento era un materiale molto più raro e prezioso rispetto all'oro, che le varie dinastie hanno saccheggiato a piene mani per secoli dalla vicina Nubia in quantità inesauribili; contemplando il sarcofago di Psusennes, realizzato con estrema finezza integralmente in argento, mi chiedo quanto questi, a distanza di millenni, debba essere furioso nei confronti del faraone bambino che, regnando pochi anni, e facendo realizzare per sé un corredo funebre in vile oro, gode a distanza di millenni di una fama incommensurabile al confronto di quella del relativamente ignoto Psusennes I.
A completamento del post, pubblico qui sotto alcune fotografie di qualche opera di rilievo, tra cui ritengo necessario menzionare almeno la statua di Chefren, di cui ho già detto sopra. Il museo non si estingue nell'esposizione della tavoletta di Narmeer e del tesoro di Tutankhamon; ci sono ovviamente altri, non pochi, reperti di pregio artistico e storico che possono essere di interesse per il visitatore che, come me, non abbia una specifica ed approfondita conoscenza dell'arte egizia; e ovviamente ci sono migliaia di reperti di nessun valore artistico e di esclusivo interesse storico archeologico; centinaia di canopi tutti uguali, calzature, parrucche, papiri indecifrabili, attrezzi da lavoro, manufatti più o meno anonimi, statue e steli di secondaria importanza, mummie di monarchi e di animali; a tratti la noia prende inevitabilmente il sopravvento, salvo essere risvegliata di tanto in tanto da qualche opera che si distingue per pregio artigianale o interesse esotico.
Lo stato attuale: grandezza e decadenza
Non si può tacere, tuttavia, lo stato di progressiva decadenza che caratterizza il museo di Piazza Tahrir. Le sale appaiono spesso male illuminate, la disposizione degli oggetti è densa fino alla claustrofobia, le didascalie sono antiquate, scarsamente leggibili e raramente aggiornate. Molte vetrine presentano un aspetto logoro, alcune non garantiscono neppure condizioni ottimali di conservazione. La polvere è ovunque, molte vetrine sembrano non essere state pulite da un secolo; attualmente il museo sembra un cantiere più che un'istituzione culturale e non saprei dire quanto ciò sia dovuto ai traslochi in corso verso il nuovo GEM.
Per il visitatore abituato agli standard museali europei o americani, l’esperienza può risultare sconcertante: un caos espositivo che rischia di oscurare la magnificenza delle opere. Il museo sembra più un deposito monumentale che un’istituzione didattica capace di comunicare la civiltà faraonica in modo chiaro e coinvolgente.
Le critiche non sono nuove. Già negli anni Sessanta e Settanta, studiosi e viaggiatori segnalavano la necessità di un radicale ammodernamento. Tuttavia, le difficoltà economiche, la burocrazia e il contesto politico hanno reso quasi impossibile ogni rinnovamento. Il risultato è che oggi il museo appare come una reliquia museografica, interessante non solo per le collezioni ma anche come testimonianza di un modo ottocentesco di fare museologia.


Consigli per la visita
Nonostante i limiti strutturali, una visita al Museo Egizio rimane un’esperienza imprescindibile per chiunque si rechi al Cairo. Ecco alcuni suggerimenti pratici:
Arrivare presto: la folla è spesso ingente, soprattutto nelle sale dedicate a Tutankhamon. Visitare al mattino permette di godere di un’atmosfera relativamente più tranquilla, prima che il contenuto dei grandi autobus venga rigurgitato dentro alle sale.
Prepararsi in anticipo: non sono un estimatore delle guide turistiche, che normalmente si limitano a intontire i turisti con qualche aneddoto e curiosità di dubbio valore; tuttavia l'archeologia e l'arte egizia sono particolarmente oscure e impenetrabili, per cui un po' di studio preventivo che consenta almeno di riconoscere i principali elementi iconografici può giovare alla visita.
Prendersi il proprio tempo: diversamente da quanto ho detto ad esempio per il MET, dove ho dovuto saltare a pie' pari l'intera sezione egizia per potere ultimare la visita in una sola giornata, il museo egizio del Cairo non è immenso e può essere visitato integralmente in una mezza giornata senza sacrificare nessuna opera, per cui venite all'apertura e con calma attraversate il museo soffermandovi per tutto il tempo necessario sulle opere che più vi appassionano.
Prepararsi al contrasto: non aspettarsi un museo scintillante e perfettamente allineato agli standard internazionali. L’esperienza ha un carattere quasi “archeologico” in sé: sembra di entrare in un deposito ottocentesco, e ciò può anche avere un fascino particolare per chi sa apprezzarne l’atmosfera.
Considerare il futuro: con l’apertura del GEM, la visita al museo di Tahrir acquista il valore aggiunto di un documento storico. Andarvi oggi (fine 2025) significa vedere l’istituzione nella sua forma originaria, prima che venga inevitabilmente ridimensionata.
Una riflessione critica
Il Museo Egizio di Piazza Tahrir è una metafora perfetta dell’Egitto contemporaneo: grandioso nel patrimonio, fragile nelle strutture, sospeso tra gloria e decadenza. La sua stessa sopravvivenza, tra saccheggi evitati per miracolo e manutenzione inadeguata, racconta molto delle difficoltà che il Paese incontra nel valorizzare il proprio patrimonio.
Si potrebbe rimproverare alle autorità egiziane di non aver saputo investire in un serio ammodernamento del museo, di aver lasciato che un’istituzione tanto prestigiosa si riducesse a un deposito polveroso. Ma sarebbe anche ingiusto dimenticare che l’Egitto ha dovuto affrontare crisi economiche, rivoluzioni, terrorismo, instabilità politica: in un simile contesto, la priorità della cultura è stata spesso sacrificata.
Resta, tuttavia, la sensazione che l’Egitto non abbia pienamente compreso il valore strategico del suo patrimonio. Se ben conservato e valorizzato, esso potrebbe essere non soltanto una fonte di orgoglio identitario, ma anche un volano economico di enorme portata. Invece, l’impressione che si ha visitando Tahrir è quella di una grandezza sprecata, di un capitale culturale lasciato a languire.
Conclusione: un monumento alla memoria, più che un museo per il futuro
Oggi il Museo Egizio del Cairo si trova a un bivio. Con l’apertura del GEM, rischia di perdere gran parte delle sue collezioni più celebri. Potrebbe diventare un museo “minore”, oppure reinventarsi come istituzione storica, conservando il fascino di un luogo che ha segnato un’epoca dell’archeologia.
In ogni caso, resta un luogo fondamentale da visitare, non soltanto per i tesori che custodisce, ma perché testimonia la complessità del rapporto dell’Egitto con il proprio passato. Passeggiare tra le sue sale è come attraversare un palinsesto di memorie: da un lato l’immortalità dei faraoni, dall’altro la fragilità delle istituzioni moderne.
Chi varca la soglia del museo di Piazza Tahrir non entra soltanto in un’esposizione di antichità: entra in un racconto politico, storico e culturale che riguarda tanto l’Egitto quanto l’Occidente. Ed è forse questa stratificazione di significati, più ancora dei tesori d’oro e di pietra, a rendere il museo un’esperienza imprescindibile per chi voglia davvero comprendere cosa significhi “Egitto” nel mondo contemporaneo.




























































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