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Immagine del redattoreThe Introvert Traveler

Il Ngorongoro, i Masai, il petrolio e John McEnroe

Aggiornamento: 27 set


Ah, la Tanzania! Terra di vasti orizzonti, di savane sconfinate, di fauna selvaggia che attira turisti da tutto il mondo.

Sono appena rientrato da un safari fotografico nell'Africa occidentale, dove da bravo turista privilegiato occidentale ho dato il mio contributo al business dei safari, aggiungendo una jeep al codazzo di mezzi rombanti in quelle che una volta erano praterie sconfinate e incontaminate. E' poco etico e coerente apprestarsi a scrivere un testo sulla tutela dell'ambiente dopo aver preso 5 aerei per andare a inquinare un paradiso naturalistico? Sì. Ho diritto nella mia unica vita di godere ed essere partecipe di tanta bellezza? Anche. Ma non è di questo che voglio parlare, o almeno non del tutto.


Non appena arrivi in Tanzania, noti subito, ovunque, la fotografia incombente della presidentessa della Tanzania, Samia Suluhu.

La vedi una volta all'ufficio immigrazione, la vedi una seconda volta al distributore di benzina, la vedi una terza volta all'autogrill e poi nei bagni dei ristoranti, dentro ai sacchetti delle patatine e iscritta nella luna nel cielo stellato; e allora potresti pensare "oh che cosa splendidamente pucciosa, una donna, musulmana, femminista, presidentessa di un Paese arretratissimo del terzo mondo, il mondo è proprio un posto meraviglioso; dalla povera e sottosviluppata Africa si solleva un moto di progresso, roba che noi in Occidente, dediti a fare leggi sulle quote rosa nei consigli di amministrazione dobbiamo inchinarci cospargendoci il capo di cenere".



Poi il tuo viaggio ti porta nel Ngorongoro, un posto senza uguali sulla terra, un paesaggio stupefacente, un paradiso naturalistico sbalorditivo, oltre che, più o meno da quando esiste il genere umano, o poco meno, terra natia dei Masai. Sì, proprio quei Masai che tutti ricordiamo dalle fotografie turistiche, alti e fieri, vestiti nei loro caratteristici shúkà rosso brillante, intenti a saltare in alto durante le loro danze tradizionali. Ma i Masai non sono solo un’attrazione da cartolina. Sono un popolo con una storia millenaria, i fieri e incorruttibili guerrieri narrati da Karen Blixen, o più semplicemente un popolo che vuole farsi i cazzi propri nella propria terra, come più o meno prevedono tutte le norme internazionali sul principio di autodeterminazione dei popoli.



Eppure, nell'attraversare il Ngorongoro, vieni colto dal lievissimo sospetto che ci sia qualcosa che non va. La tortuosa e scenografica strada in terra rossa che dal Ngorongoro scende verso il Serengeti è invasa da Masai che la percorrono a piedi in grande numero; e poi ci sono Masai a centinaia aggregati sulle colline, Masai seduti ai bordi delle strade. Hanno un aspetto maestoso, dignitoso e severo, anzi no... più che severi sembra che abbiano proprio le palle girate. Parecchio.

Poi incroci un corteo di grandi SUV scintillanti con i lampeggianti accesi, poliziotti e militari appesi come grappoli d'uva ai lati dei SUV che sollevano un polverone e intimano a ogni auto incrociata di farsi da parte per agevolare il passaggio del corteo; più che intimare ti buttano proprio fuori dalla strada. Dieci, venti, 50 SUV scintillanti e rombanti, in un Paese dove il mezzo più nuovo e costoso è una Trabant arrugginita con le portiere masticate dal bestiame locale. Tutti in colonna e molto, molto minacciosi.

E comincia ad assalirti il sospetto che qualcosa non quadri.

Ma facciamo un paio di passi indietro.


I Masai: un popolo in marcia


Cominciamo col capire chi sono i Masai, senza alcuna pretesa di competenza antropologica.

Tradizionalmente, i Masai sono un popolo di pastori nomadi che vive tra Kenya e Tanzania. La loro esistenza è stata plasmata dalle terre che hanno attraversato per secoli, un’armonia tra uomo e natura che poche culture possono vantare.

Pare che la reputazione dei Masai come popolo guerriero sia dovuta a qualche maldicenza messa in giro dagli arabi che già nei secoli passati avevano qualche problema di buon vicinato con questo popolo; in realtà i Masai sono, da sempre, più dediti alla pastorizia che alla guerra. Se fossero stati questo fiero popolo guerriero probabilmente la loro storia non sarebbe connotata da una lunga tradizione di usurpazione di terre. La stessa Karen Blixen narra lungamente le virtù belliche dei Masai, ma omette di dire che già dal 1904 gli inglesi gli soffiarono praticamente tutto il territorio dell'odierno Kenya e del Kilimanjaro; se fossero stati questi intrattabili e bellicosi individui che si dice da secoli, forse questi espropri avrebbero lasciato qualche traccia nella storia, come hanno fatto quelli perpetrati a danno degli Zulu, che nei confronti degli inglesi sollevarono qualche obiezione, o degli indiani d'America.


Fatto sta che nel 2024, se scrivi "Masai" su Google, vengono fuori decine di dichiarazioni del seguente tenore: "Abbiamo vissuto in armonia con la fauna selvatica per generazioni e ora ci viene detto che dobbiamo lasciare la nostra terra perché qualcun altro la considera un parco giochi." Questa testimonianza di Ole Taek, un anziano della comunità Masai, è stata riportata da Survival International, un'organizzazione che lavora per i diritti dei popoli indigeni.


L'estromissione dalle terre: la tutela ambientale secondo il socialismo africano


Torniamo sulle strade polverose del Ngorongoro. Mentre osservi i Masai aggregarsi a frotte sulle pendici delle colline, chiedi al tuo autista cosa stia succedendo. "E' un evento religioso? Una ricostruzione storica? Una tradizione tribale? Un raduno tra clan?". E lui parte con uno spiegone un po' incoerente in base al quale i Masai avrebbero il vizio della pastorizia e della proliferazione e più i Masai proliferano, più hanno bisogno di bestiame che sottrae l'erba alle specie selvagge; i Masai, dice, ormai sono più di 7.000 e sono troppi per il Ngorongoro. Esiti un attimo, pensando che solo il parco nazionale del Serengeti è grande quasi come l'Emilia Romagna, e questi Masai devono avere un consumo smodato di latte e bistecche per riuscire, con il loro bestiame a rappresentare un problema demografico per gnu, zebre e gazzelle (perché elefanti e giraffe non brucano l'erba). Provi a chiedere chi, e in base a quali criteri, stabilisca che 7.000 è "troppo" anziché "poco", ma proprio in quel momento arriva il cazzutissimo corteo di militari, poliziotti e vetri oscurati e l'autista osserva "tutto il governo della Tanzania oggi e qua".





E qui facciamo il secondo passo indietro per parlare dell'immanente presidentessa, dalla fisionomia reminiscente della Pinguina dei Blues Brothers e della Signora Trinciabue di Matilda sei mitica.


Samia Suluhu Hassan è la prima donna presidente della Tanzania, succeduta a John Magufuli nel marzo 2021 dopo la sua morte. Prima di diventare presidente, Samia Suluhu aveva servito come Vicepresidente della Tanzania dal 2015. La sua carriera politica è iniziata negli anni '80, con un'ampia esperienza sia a livello regionale che nazionale, inclusi ruoli come Ministra per il turismo, il commercio e gli investimenti nella regione semi-autonoma di Zanzibar. Samia Suluhu è membro del partito Chama Cha Mapinduzi (CCM), il partito socialista dominante in Tanzania sin dalla sua indipendenza. La sua presidenza è spesso rappresentata (in termini propagandistici?) come un tentativo di portare un cambiamento più moderato rispetto al suo predecessore Magufuli, che era noto per le sue politiche autoritarie e il controllo stretto della libertà di stampa e dei diritti civili. Tuttavia la professione di questi intenti non sembra corrispondere alla realtà dei fatti, che sembra essere molto più in continuità con i metodi brutali del suo predecessore; a dispetto dei proclami retorici che la Hassan illustra nelle occasioni pubbliche, i primi anni della sua presidenza sono stati caratterizzati da repressioni degli oppositori e brutalità poliziesche e restrizioni della libertà di stampa.

All'indomani delle sua elezione, nel corso di una conferenza stampa, le fu chiesto se avesse intenzione di avviare da subito il programma di riforme costituzionali da molti caldeggiato e la risposta fu perentoria: no, prima viene l'economia; e allora non meraviglia se l'attuale governo della Tanzania, guidato da Samia Suluhu, sembra aver abbracciato una strategia che considera i Masai più un ostacolo che una risorsa: "Il governo della Tanzania ha deciso di destinare queste terre alla conservazione per il turismo e la caccia," ha dichiarato in un comunicato ufficiale il Ministro delle Risorse Naturali e del Turismo della Tanzania, Damas Ndumbaro. "Questa decisione è stata presa per il bene del nostro sviluppo economico." Alla dichiarazione del Ministro del Turismo ha fatto eco la leader progressista, o sedicente tale: "Il mio governo è impegnato a proteggere le risorse naturali del nostro paese per le generazioni future".

Qualcuno allora potrebbe dire che il governo della Tanzania, presieduto dalla volitiva pasionaria ha tracciato una rotta che, sia pure con metodi un po' a grana grossa inevitabili in un Paese così arretrato, si pone due obiettivi lodelvoli: la crescita economica, presupposto indefettibile per la coltivazione dei diritti civili e la tutela del patrimonio ambientale e che un po' di realismo impone di chiudere un occhio se qualche Masai viene sfrattato nottetempo dalla propria capanna senza troppi complimenti.


Eh, come no.


Si apre il sipario su John McEnroe, il sublime Superbrat e su una commedia nera che sembra scritta dalla penna caustica dei fratelli Coen.


A dicembre 2023 il leggendario tennista (un altro sedicente democratico che, apparentemente è disposto ad accantonare i diritti civili e ambientali se sollecitato da sufficienti zeri) ha allestito un'esibizione nel parco del Serengeti denominata Epic Tanzania Tour; l'iniziativa è promossa dal governo della Tanzania, nella persona della Presidentessa Hassan e da Carl Shephard, ex collaboratore del Presidente Obama e ora promotore di safari per milionari in Tanzania.


L'inizativa ha fatto sollevare qualche sopracciglio; si è detto che l'evento sarebbe un caso di "sportwashing" con cui si allestisce una sbrilluccicosa vetrina sportiva per mascherare abusi di massa su un intero popolo.


Qualcuno con un po' di cinismo, potrebbe replicare che sì, promuovere l'industria dei safari con un evento per ultramilionari mentre i Masai vengono sfrattati bruciandone le capanne è un po' rozzo e censurabile, ma tuttavia i safari esistono e portano tanti soldi che servono per la tutela dell'ambiente; e chi sarei io, reduce da un safari in Tanzania, per criticare lo sfruttamento economico del patrimonio ambientale africano?


Apprezzo lo scetticismo del cinico obiettore, ma adesso arriva la ciliegina, anzi, l'anguria sulla torta. Preparatevi, perché l'epilogo di questa storia è quasi ammirevole nella sua sfacciata audacia.


Ricordate le dichiarazioni del Ministro del Turismo e della Presidentessa Hassan? "La nostra priorità è attrarre investimenti stranieri per lo sviluppo del Paese"? Liberate le terre dai Masai, gli investimenti stranieri sono arrivati, nella forma di petrodollari dagli Emirati Arabi Uniti, ma gli sceicchi non hanno messo mano al portafoglio per fare investimenti in Tanzania finanziandone indirettamente lo sviluppo; gli sceicchi hanno messo mano al portafoglio per convertire le terre dei Masai in riserve di caccia.


You cannot be serious.








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