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Il Compianto del Cristo Morto di Niccolò dell'Arca (Bologna), un drammatico e anticonformista prodigio scultoreo

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    The Introvert Traveler
  • 22 ore fa
  • Tempo di lettura: 8 min
Compianto Cristo Morto

Anno di realizzazione: circa 1470

Ultima visita: giugno 2025

My rating: 9/10


Niccolò dell’Arca (attivo tra il 1462 e il 1494) è uno di quegli artisti che sfuggono alle etichette e ai manuali. Poco documentato, enigmatico, eppure assolutamente centrale per comprendere una stagione straordinaria dell’arte italiana. Si ritiene che le sue origini siano pugliesi ma è a Bologna che lascia il segno più profondo, rivoluzionando per sempre la scultura cittadina, e quella italiana in generale.

Nel panorama del Quattrocento, dominato dalla grazia fiorentina o dal decoro lombardo, Niccolò impone un linguaggio alternativo, fatto di tensione muscolare, gesti esasperati, volti scavati dalla sofferenza. Le sue opere sembrano animate da una forza interna che deforma le figure, le contorce, le fa esplodere. È un’arte del dolore e del pathos, che anticipa i fremiti del Barocco e perfino l’espressionismo del XX secolo.

Nel secondo Quattrocento, Bologna non era ancora il centro artistico affermato che sarebbe diventata nei secoli successivi. Grazie a figure come Niccolò dell’Arca, la città entra nel circuito delle capitali del Rinascimento, ma con una voce profondamente autonoma. Non imita Firenze: inventa, sperimenta, emoziona.

La sua influenza si estende ben oltre i suoi contemporanei. A Bologna opererà anche il giovane Michelangelo, che vide le sue opere. E sebbene i due artisti parlino linguaggi diversi, è difficile pensare che il pathos del Compianto non abbia lasciato un’eco nella mente di chi avrebbe scolpito la Pietà Vaticana pochi anni dopo.

Dove sta l’innovazione di Niccolò dell’Arca? Nella capacità di fondere stili diversi — gotico nordico, naturalismo rinascimentale, tradizione plastica italiana — in una sintesi personalissima, dove forma e contenuto si fondono in un unico grido. Le sue figure non sono mai statiche: sono corpi in movimento, anime in tormento, carne e spirito insieme.

Per secoli, Niccolò dell’Arca fu quasi dimenticato, troppo innovativo, troppo estraneo al gusto del suo tempo. Solo nel Novecento la critica — da Roberto Longhi a Francesco Arcangeli — ne riconobbe la grandezza. E oggi, finalmente, la sua opera è oggetto di una riscoperta non solo accademica.

In un altro post, esagerando un po' per ragioni di sintesi e per necessità retoriche, ho attribuito a Michelangelo un radicale ruolo di rottura rispetto ai suoi predecessori quattrocenteschi, rappresentandoli come puerili e primitivi; si trattava di un'affermazione eccessiva, necessaria a mettere nella giusta luce lo strabiliante salto di qualità compiuto da Michelangelo nell'elevare il livello della scultura rinascimentale; ma si trattava di un'esagerazione perché Michelangelo (che a una lettura attenta dimostra l'influenza subita non solo dai classici greci, romani ed ellenistici, ma anche dai suoi più prossimi predecessori) era un gigante, ma non sedeva sulle spalle di nani, e un gigante che l'ha preceduto è stato per l'appunto Niccolò dell'Arca, che tuttavia non ha goduto, almeno fino al Novecento, di altrettanta fortuna, probabilmente perché è stato troppo in anticipo sui tempi. L'opera che più di tutte esprime la grandezza di Niccolò, e il suo anticonformismo, è il Compianto del Cristo Morto, conservato nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna.


Il Compianto sul Cristo Morto di Niccolò dell’Arca: una tragedia di terracotta nella Bologna del Quattrocento


Compianto Cristo Morto


Nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna si conserva una delle opere più laceranti e sconvolgenti dell’intera scultura occidentale: il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca, databile (con un certo grado di incertezza) intorno al 1470. Non è un semplice gruppo devozionale, non un altorilievo narrativo di scuola, ma una tragedia scolpita, che nella forza espressiva anticipa il Barocco e nella tensione gestuale sembra già sfiorare l’espressionismo novecentesco.

Si tratta di sette figure in terracotta a grandezza quasi naturale, disposte in semicerchio attorno al corpo esanime di Cristo. Non vi è prospettiva classica, non c’è monumentalità serena: tutto è urlo, pianto, gesto, carne che si contorce. È un’opera che non cerca la compostezza, ma la verità drammatica dell’emozione.


L’assenza come soggetto

Il vero centro dell’opera, paradossalmente, è il vuoto. Il Cristo morto giace disteso su una lastra pietrosa, ma il suo corpo funge da innesco silenzioso per un'esplosione di dolore che investe le figure circostanti. L’assenza della vita genera una presenza scenica devastante: Maria, Maddalena, le pie donne, San Giovanni, ognuno reagisce in maniera distinta, ma partecipa a un’unica coreografia tragica.

È il trionfo di una messa in scena teatrale: non quella rinascimentale dell’armonia proporzionale, ma un teatro dionisiaco, emotivo, in cui la materia si fa spirito e lo spirito si fa grido. In tal senso, l’opera può essere letta come un'anticipazione del pathosformel teorizzato da Aby Warburg: una forma visiva archetipica del dolore umano che ritorna attraverso le epoche.


Compianto Cristo Morto

Compianto Cristo Morto

Terracotta: materia dell’anima

Uno degli aspetti più sorprendenti del Compianto di Niccolò dell’Arca è la scelta della terracotta (un tempo policroma) come mezzo espressivo. In un’epoca in cui la scultura monumentale prediligeva il marmo e il bronzo — carichi di prestigio classico e associati alla tradizione più nobile — l’artista bolognese adotta una materia “povera”, che in ambito colto era spesso relegata a ruoli secondari: statue devozionali domestiche, elementi decorativi, bassorilievi invetriati.

Ma proprio questa scelta si rivela il cuore pulsante dell’opera. La terracotta consente infatti una immediatezza plastica che nessun altro materiale può offrire: può essere modellata direttamente con le dita, permette repentini cambi di gesto, increspature improvvise, vibrazioni della superficie che sembrano trattenere la memoria del tocco. L’artista non scolpisce: plasma, come un demiurgo che agisce sulla materia viva.

In quest’opera, la terracotta diventa carne che urla. Le pieghe dei panneggi agitati, i capelli scomposti, le bocche spalancate che sembrano spalancarsi in un grido ancora in atto, tutto deriva da questa intimità tra gesto e materia. L’esempio più radicale è la Maddalena: corpo teso, volto sconvolto, capelli sospinti da un vento interiore più che atmosferico — una presenza che rasenta la visionarietà.

La scelta della terracotta è anche culturalmente consapevole. Bologna, nel XV secolo, non era un centro marmoreo come Firenze; la terracotta era diffusa e accessibile, ma Niccolò la eleva a strumento tragico, portandola al massimo grado di dignità formale. Non a caso si è ipotizzato che l’artista avesse conosciuto anche la tradizione plastica nordica, come quella di Claus Sluter, dove la terracotta e la pietra si mettevano al servizio di un realismo devoto e viscerale.

In ogni caso, nel leggere l'opera, non va dimenticato che l'opera fu realizzata in policromia e solo nell'attuale stato di conservazione ci appare priva dei suoi originari colori; la terraccota era quindi una materia funzionale alla realizzazione di un'opera policroma; da questo punto di vista può essere utile confrontarla con un'altra celebre opera analoga, vale a dire il Compianto del Cristo Morto di Guido Mazzoni, conservato nella chiesa di Sant'Anna dei Lombardi a Napoli.

Infine, la funzione originaria del Compianto — inserito nella chiesa ospedaliera di Santa Maria della Vita, accanto a un lazzaretto — richiama una funzione liturgica e popolare. La terracotta, meno rarefatta del marmo, più prossima al quotidiano, si prestava alla fruizione ravvicinata, emotiva, empatica: il fedele poteva riconoscersi in quei volti deformati dal dolore, sentirli simili ai propri. Il medium non distanzia, ma coinvolge.

In tal senso, la scelta di Niccolò è pienamente moderna: rinuncia all’ideale per toccare il vero, abbandona la retorica della bellezza per scolpire ciò che la bellezza non osa dire — il trauma, la perdita, il corpo senza resurrezione. La terracotta, fragile e mutevole, è la pelle più vera per raccontare l’umano.


Analisi dell'opera

I due soggetti che hanno avuto maggiore notorietà e fortuna critica sono Maria di Cleofa, raffigurata nel gesto di protendere in avanti le mani, come nella volontà di respingere la vista del Cristo morto e Maria Maddalena, ai piedi del messia. La notorità è evidentemente dovuta alla carica espressiva, anzi espressionista delle due figure; si può ragionevolmente affermare che in mancanza di queste due figure l'opera non avrebbe raggiunto il successo critico che ha trovato nel corso dell'ultimo secolo.


Compianto Cristo Morto

Se la gestualità e la mimica delle due donne è particolarmente emozionante e merita un'attenta contemplazione, trovo particolarmente sorprendente la vista di profilo della Maddalena e lo spettacolare dispiegamento volumetrico delle vesti agitate dal vento. Credo che nella contemplazione di un'opera d'arte sia doveroso fare l'esercizio mentale di immaginare l'artista davanti alla tela bianca (o alla creta inerte), tentando di seguire il percorso creativo che l'ha portato a realizzare l'opera così come appare ultimata ai nostri occhi. Trovo particolarmente avvincente pensare a Niccolò dell'Arca nel corso delle settimane, dei mesi precedenti alla definizione definitiva dell'assetto dell'opera, e al percorso intellettuale e creativo che lo ha portato a pensare e poi a osare questa composizione, con i panni che volteggiano e si attorcigliano per oltre un metro di lunghezza nello spazio:


Compianto Cristo Morto

Quello che trovo un altro pezzo di bravura è la figura del Cristo, non solo per la quieta compostezza della figura ormai esanime, ma anche per il realismo anatomico e per la maestria dei dettagli, come il cuscino e il materasso su cui giace il corpo.

Compianto Cristo Morto
Compianto Cristo Morto

La figura di Maria completa il gruppo più manifestamente espressionista; questa figura è parzialmente eclissata dalla potenza espressiva delle altre due donne, ma credo che nella naturalezza del gesto di sofferenza sia comunque notevomente efficace.


Compianto Cristo Morto

La figura di Salomè, che esprime il proprio dolore conficcando le dita delle mani nelle cosce è drammatica ma a mio giudizio meno efficace rispetto alle altre donne del gruppo, mentre l'apostolo Giovanni sembra affetto da un'odontalgia che gli impedisce di essere partecipe dell'evento al pari delle donne. Vorrei spendere due parole a favore di Nicodemo, tanto trascurato dai critici che hanno commentato l'opera nel corso dei decenni; esibisce con fierezza martello e tenaglie e anche nel più fervente ammiratore di Niccolò dell'Arca trasmette la sensazione di essere passato di lì per rimuovere il corpo di Cristo dalla Croce ed essere stato immortalato in un photobombing ante litteram dove, sospettando l'importanza del momento, ha assunto un aria solenne ma sostanzialmente inconsapevole cercando di assumere una posa il più possibile fotogenica.


Compianto Cristo Morto


Un realismo che non consola

Se in Donatello o in Verrocchio il realismo è spesso veicolo di umanità o spiritualizzazione, in Niccolò dell’Arca il realismo è brutale, crudo, persino disturbante. I volti sono scavati, segnati, esasperati, in una deformazione che non è caricatura ma intensificazione simbolica. La scultura, qui, non idealizza: scuote.

Non si può non pensare a certi crocifissi medievali tedeschi, o alle opere di Claus Sluter, scultore borgognone che pure plasmava figure scomposte e dolenti. Ma in Niccolò c’è una componente più scenica, quasi performativa, che rende il gruppo una azione in atto, un “tableau vivant” eterno della sofferenza.


Compianto Cristo Morto
Compianto Cristo Morto


Ricezione e fortuna critica

L’opera fu a lungo ignorata dalla storiografia artistica più centrata su Firenze e Roma; quando è (marginalmente) menzionata viene sommariamente descritta come grottesca, sconcia, poco decorosa. Per secoli, nel gusto prevalente, ha prevalso un modello artistico classico, un ideale canonico di bellezza in cui l'espressività drammatica e dinamica del Compianto non trovava una propria posizione.

Solo nel Novecento, studiosi come Roberto Longhi e Francesco Arcangeli ne riscoprirono il valore rivoluzionario. Arcangeli, in particolare, ne colse la portata visionaria, vedendo in Niccolò un artista “barbaro” ma profetico, capace di parlare oltre il proprio tempo.

Oggi, il Compianto è diventato una delle mete imprescindibili per chi voglia comprendere la scultura italiana in una delle sue forme più radicali e potenti. Non è solo un’opera religiosa: è una riflessione antropologica sull’esperienza del dolore, una pietà laica che trascende il contesto liturgico.


L'influenza nella cultura popolare

Sarebbe ardito ricercare influenze dirette di quest'opera sulla cultura moderna, ma io credo che, anche solo indirettamente, qualche parallelismo si possa osare. Propongo, senza pretesa di esattezza, tre opere che ritengo possano idealmente essere legate da un fil rouge all'urlo silenzioso della Maria Maddalena. Mi piace pensare che Gerald Scarfe, Edvard Munch e Francis Bacon abbiano avuto in mente, anche solo inconsciamente, Niccolò dell'Arca, mentre realizzavano le proprie opere; se anche così non fosse inseguire influenze e citazioni tra opere di epoche e ispirazione diverse è sempre e comunque uno dei grandi piaceri nella contemplazione dell'arte.



Conclusione: un’opera che guarda oltre il tempo

Il Compianto sul Cristo morto non è un’opera che si contempla in silenzio: è un’opera che interroga, che chiede allo spettatore di entrare nel dramma, di partecipare. È arte che supera l’estetica per entrare nel dominio dell’empatia, della psiche, della memoria collettiva.

In un tempo in cui la sofferenza viene estetizzata o rimossa, Niccolò dell’Arca ci ricorda che l’arte può ancora essere ferita, urlo, umanità nuda. Non per scioccare, ma per riconnetterci con qualcosa di profondamente vero.


Post scriptum a margine

Il Compianto è un paradiso per introversi. L'opera è sostanzialmente ignota al turismo di massa. Santa Maria della Vita è nel pieno del cosiddetto Quadrilatero, un piccolo quartiere quasi integralmente dedito a negozi di frutta, formaggi, salumi, pesce e ristoranti; i caproni di Instagram sono tutti là fuori a scattarsi selfie davanti a bicchieri di Spritz e taglieri di prosciutto; qui regna il silenzio e si possono passare decine di minuti in solitudine a contemplare l'arte disturbati solo occasionalmente da qualche turista che appare silenziosamente e altrettanto silenziosamente svanisce.




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