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Immagine del redattoreThe Introvert Traveler

Marshall McLuhan, la pieta' di Michelangelo e i 15 minuti di oblio

Pietà vaticana Instagram

Ormai da tempo, se visitate la Basilica di San Pietro a Roma con la speranza di godere da vicino di una delle opere più strabilianti di Michelangelo, la Pietà Vaticana, siete destinati a vedere frustrate le vostre aspettative.


Come la Gioconda al Louvre, la Pietà Vaticana è divenuta vittima della sua stessa fama e giace, sostanzialmente illeggibile, dietro a una spessa teca di cristallo infrangibile, tenuta a debita distanza dal pubblico da un'odiosa ringhiera. E se nel Mosè di San Pietro in Vincoli è solo la balaustra a respingere l'assalto dei visitatori, consentendo per lo meno agli ipermetropi una parziale lettura dell'opera, la barricata vaticana fa della Pietà poco più che un miraggio.


La cura con cui la Pietà viene sottratta agli occhi di turisti ed estimatori, per quanto dolorosa, è quanto mai opportuna. Era il 21 maggio 1972 quando uno squilibrato di nome László Tóth, per il quale nessuna modifica ad personam al codice penale avrebbe mai potuto essere ritenuta troppo severa, si avventò armato di martello sul precoce capolavoro del Maestro di Caprese, per compiere uno stupro all'intera storia dell'arte, un affronto all'intera umanità.


László Tóth

László Tóth

Trascorsero pochi secondi prima che il folle venisse immobilizzato, ma tanti ne bastarono per ledere in modo drammatico il prodigio di marmo. Quel volto muliebre che fissava nella pietra la massima grazia che mente umana possa immaginare, quelle palpebre che sembrano modellate dalla carta velina più che dalla roccia, tutto dissolto in pochi istanti a colpi di ottusità; ciò che non erano riusciti a fare nel corso dei secoli popoli invasori, armate napoleoniche, bombardamenti alleati, era riuscito in pochi secondi a un folle.


Pietà Vaticana

I danni alla Pietà Vaticana

I danni alla Pietà Vaticana

Al criminoso attentato seguì un prodigioso e provvidenziale restauro che seppe ripristinare, contro ogni speranza l'opera di Michelangelo; un "dream team" di esperti, costituito da Vittorio Federici, direttore del Gabinetto ricerche scientifiche, Ulderico Grispigni capo laboratorio restauro pietre, Giuseppe Morresi capo laboratorio materie plastiche e Franco Dati restauratore e tecnico del Gabinetto, lavorò per mesi nel tentativo di produrre un nuovo materiale che, per qualità plastiche e mimetiche, consentissero di realizzare delle protesi del tutto impercettibili restituendo la Pietà al primitivo splendore; attingendo ai materiali utilizzati in odontotecnica, realizzando composti di polvere di diverse qualità di marmo, esplorando diverse qualità di collanti, recuperando da ogni parte del mondo frammenti che alcuni idioti presenti al momento dell'attentato avevano sottratto con destrezza, probabilmente per aggiungerli alla collezione di sacchetti di sabbia di Sardegna tenuta sul caminetto di casa, in pochi mesi il team di eroi-restauratori riuscì nell'impresa impossibile di ripristinare impeccabilmente l'opera di Michelangelo, emendando i peccati dell'idiozia umana.


Il restauro della Pietà Vaticana

Ma visto che la prudenza non è mai troppa, da allora la Pietà giace a distanza di sicurezza dal pubblico, protetta da uno spesso vetro antiproiettile.


Chi visita Roma in questi giorni saprà che l'intero, immenso patrimonio artistico della città e attualmente oggetto di un invasivo restauro in preparazione del prossimo Giubileo del 2025. A questo maquillage non si sottrae nemmeno uno dei gioielli della corona dell'intero patrimonio artistico romano: la Pietà Vaticana, per l'appunto. Come recita un piccolo cartellino a margine dell'opera michelangiolesca, la Pietà è attualmente sottratta, più del solito, integralmente, alla visione del pubblico per i lavori di dotazione di un nuovo cristallo di protezione, presumibilmente ancora più impenetrabile ai proiettili e alla vista. All'ammirazione dei passanti viene esposto un calco; ma il compito di informare i visitatori che quella esposta non è l'opera michelangiolesca ma una copia, viene demandata a un minuscolo e marginale cartellino, una nota a pie' di pagina in corpo 6, una clausola vessatoria in inchiostro simpatico.


E allora accade il sublime, che la folla, armata di sospensione dell'incredulità, si accalca davanti alla stampa 3D in plastica e gesso per scattare selfie, deponendo lo scetticismo che dovrebbe imporre di chiedersi come mai un'opera di tale valore e già gravemente mutilata in passato sia esposta in tanta vulnerabilità.



Non è tanto la reazione del pubblico che dovrebbe lasciare stupiti, quanto l'azione dei responsabili del Vaticano. E' sufficiente appendere una foto di Scarlett Johansson in un luogo pubblico perché i passanti si accalchino a scattare selfie; credo che sia l'involuzione del comportamento che Marshall McLuhan descriveva commentando l'ambizione di chiunque ad avere 15 minuti di celebrità e poco importa se la pubblicazione del selfie sul proprio profilo Instagram tuttalpiù procura 15 minuti di oblio. Ma esporre una copia in luogo dell'originale è forse naturale? Se la Gioconda andasse (come sarebbe opportuno) in restauro per essere ripulita da secoli di sporcizia e idrocarburi combusti, il Louvre esporrebbe forse un poster comprato su Amazon?

A me piace pensare che i responsabili del patrimonio artistico Vaticano e gli alti prelati si siano riuniti in un sabba clandestino, muniti di cappucci conici e canti gregoriani in sottofondo e abbiano organizzato una burla che, in confronto, quella delle teste false di Modigliani è stata una sciocchezza.

Jorge da Burgos censurava i confratelli dediti al riso, perché il riso "squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l'uomo simile alla scimmia"; ma Jorge da Burgos era un personaggio di finzione e a me piace pensare a questa riunione clandestina dove i cardinali si tengono la pancia dal ridere "sì, esponiamo un falso!" "ma scriviamolo solo in sanscrito che è falso!" e giù pacche sulle spalle.


Ma mentre osservo la carovana di turisti che, come caproni diabolici fuggiti dal clandestino sabba vaticano, si accalcano davanti al manufatto posticcio brandendo schermi luminosi, comincio a riflettere che nel Battistero di Firenze la Porta del Paradiso di Ghiberti è da tempo stata sostituita da una copia, mentre l'originale è esposto al Museo dell'Opera del Duomo, che in Piazza del Campidoglio a Roma è esposta la copia della statua di Marco Aurelio, il cui originale si trova ai Musei Capitolini, che tutto l'esterno di Orsanmichele a Firenze è costeggiato da copie, che le stesse sculture romane che oggi facciamo la fila per ammirare nei musei capitolini erano spesso a loro volta copie di originali greci o ellenistici e che al Museo d'Arte di Otsuka non espongono solo copie della Gioconda o della Ragazza dall'Orecchino di Perla di Vermeer, ma hanno realizzato addirittura copie della Cappella degli Scrovegni e della Cappella Sistina.


E allora lo sconcerto di fronte alla nebbia del pensiero, che porta a subire l'esposizione di un falso con la stessa passiva inerzia con cui si subisce la diffusione di una fake news, lascia il passo all'ammirazione per Paul Valéry e Walter Benjamin, che con un secolo di anticipo rispetto ai social network, commentado l'avvento della riproducibilità tecnica delle opere d'arte, avevano saputo prevedere che "come l'acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto".

E qualche brivido corre lungo la schiena, mentre l'Ucraina e la Palestina si infiammano, se si pensa che Benjamin concludeva il suo celebre saggio sulla riproducibilità tecnica dell'arte riflettendo sul fatto che la riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, con la conseguente e immediata fruibilità di massa dell'arte, poteva avere due effetti alternativi: poteva da un lato democratizzare l'arte e favorire la consapevolezza critica, ma poteva anche essere piegata agli interessi del potere per manipolare e glorificare la guerra. Mi sembra invece che la riproducibilità tecnica dell'opera d'arte anziché esprimersi nei due effetti antagonisti previsti da Benjamin si sia manifestata in due effetti concorrenti: la mercificazione consumistica dell'arte, ben lungi dal democratizzare l'accesso all'arte ha creato invece un culto pagano iconologico, che dando a chiunque i suoi 15 minuti di oblio funge da eccezionale arma di distrazione di massa, utile, tra l'altro, anche mentre il pianeta scivola in un nuovo conflitto mondiale.


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