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Ahmed e il bebop cariota. Omaggio a Stefano Benni.

  • Immagine del redattore: The Introvert Traveler
    The Introvert Traveler
  • 21 set
  • Tempo di lettura: 5 min
Tuk Tuk al Cairo

Pochi giorni dopo il mio rientro dal Cairo è mancato Stefano Benni ed è una singolare coincidenza perché mentre mi avventuravo nel traffico cariota a bordo di un taxi pensavo proprio a lui, che ne La Compagnia dei Celestini paragonava i peti notturni dei compagni di brandina a lunghe note di oboe, mentre associavo mentalmente le improvvisazioni di clacson dei tassisti a un concerto bebop. Per cui ecco il mio omaggio al traffico e ai tassisti del Cairo nello stile di Stefano Benni, che la Luisona possa essergli lieve.

Scoprii il traffico del Cairo come si scopre una piramide capovolta: cominciando dalla punta, cioè dal clacson, e risalendo per strati fino alla base, ovvero l’eternità. Dicono che le Piramidi siano durate millenni, ma qui l’Opera Monumentale è l’Ingorgo, costruito a ere sovrapposte: i tasselli di lamiera sono i blocchi, i semafori sono camere funerarie con luci intermittenti, e i motorini sono scarabei sacri che custodiscono il segreto del passaggio tra il rosso e il verde (che coincide, sorprendentemente, con il giallo, la zona dei miracoli).

Il mio tassista si chiamava Ahmed. Portava i baffi di un direttore d’orchestra e una camicia color sabbia, come se volesse confondersi con il deserto per non pagare le multe. “Benvenuto nella Sinfonia,” disse, avviando il motore con un gesto da prestigiatore che tira fuori il coniglio dal cappello e un microbus dal cilindro. “Qui i clacson parlano.” Fece “bi-bi” come un colibrì cardiaco, poi “BAAAP” come un ippopotamo baritono. “Vedi? Qui si conversa.” Io guardai fuori: nessuno sembrava ascoltare nessuno. Era un convegno di sordi felici. “Appunto,” sorrise, “la conversazione migliore.

Procedemmo nei secoli. Sì, perché a ogni centinaio di metri cambiava dinastia. Ahmed me le indicava con la bacchetta del tergicristallo, come una guida in un museo di sabbia:— “Questa è la Dinastia dei Paraurti Unificati, Antico Ingorgo: regnò per sette stagioni delle piogge di clacson.”— “Qui entriamo nel Medio Traffico, Età delle Rotatorie: grandi sovrani circolari, molto gelosi dei loro raggi.”— “Là in fondo, vedi quella lunga fila? Nuovo Regno delle Corsie Immaginarie. Mappe non pervenute, ma tutti sanno dove non andare.”— “Infine, l’epoca Tolemaica dell’Auto in Doppia Fila: cultura ibrida, parcheggio ovunque, filosofia stoica.


Autostrada del Cairo

Il Maestro Ahmed, come tutti i tassisti cairoti, praticava una geometria non euclidea. Dove io vedevo un muro di lamiere, lui vedeva un corridoio quantistico largo quanto un sospiro. “Gli spazi non sono vuoti,” mi spiegò, “sono solo timidi.” Infilò il taxi tra un camion di datteri e un carretto di melanzane come un sarto che infila il filo nella cruna di un ago in corsa. Io pensai al testamento, lui alla batteria: “ta-ta—ta-taa—bip.” L’auto davanti rispose con un contrappunto: “bip-bip—baap.” Era bebop, senza fumo né contrabbasso, un Charlie Parker di latta e benzina senza piombo. Fraseggi spericolati, sincopi sul paraurti, pause strategiche sulla mezzaria. L’aria vibrava come la pelle di un djembe al mercato di Khan el-Khalili.

C’è un lessico,” disse il Maestro. “Un colpetto breve: ‘Ci sono’. Due colpetti: ‘Ti ho visto, ma fingo il contrario’. Uno lungo: ‘Spostati che ti penso bene’. Due lunghi: ‘Sto facendo una scelta sbagliata ma con stile’. Una scala ascendente di tre clacson: ‘Sto per inventare una corsia’. Una scala discendente: ‘La corsia mi ha inventato e ora non so come uscirne’.” Guardai i vicini. Nessuno reagiva. “Non è linguaggio denotativo,” aggiunse, “è jazz: se lo capisci, bene. Se non lo capisci, ti porta lo stesso da qualche parte.

Il Maestro correggeva la rotta con microtocchi di clacson, come un chirurgo di lamiera. “La pazienza,” disse, “non è aspettare. È scegliere su quale errore salire.

Sotto i cavalcavia, scoprimmo le catacombe del Traffico Predinastico: auto dormienti, autobus in meditazione, un taxi in crisi mistica che ripeteva: “Yalla, yalla”, come un mantra. “Qui sono custoditi gli ingorghi fondatori,” spiegò il Maestro. “C’è quello del ’97, quando un muezzin perse la tonalità e tutte le auto cambiarono corsia per cercarla. C’è l’ingorgo del ’03, nato quando un turista tentò di capire il senso del rosso. C’è il grande Stallo Senza Motivo del ’19: capolavoro assoluto, durò tre ore e non si seppe mai perché.

Rottame d'auto al Cairo

A un certo punto il cielo si fece di rame, la città prese colore di semolino tostato. Noi procedevamo come un pensiero testardo. Il clacson del Maestro era diventato una tromba con le ruote: “be-bap-biiip—bap!” Io, che non capivo nulla, cominciai ad annuire come si annuisce davanti a un assolo di Parker: sì, certo, quella quinta eccedente sul cofano, quell’accordo alterato con la microcar, quel turnaround tra due microbus e un palmeto. “Vedi?” disse lui. “Ti sta parlando la città.” “E cosa dice?” “Che passeremo.” “Quando?” “Questo non è semantico, è fiducia.

Il traffico del Cairo sposta anche il tempo. Le ore acquistano pieghe, come una jalabiya ben stirata e poi improvvisamente seduta. Il tassametro non segnava numeri: scriveva versi—brevi componimenti di scontrino che parlavano di chilometri immaginari e deviazioni fatali. Ogni tanto lanciava una rima: “Sterzo/Verso”, “Corsia/Poesia”, “Clacson/Sassofon”. Il Maestro annuiva: “La lirica dell’andare a poco”.

Ci fu un momento in cui tutto si fermò. Un silenzio che sembrò un atto di cortesia universale. La città trattenne il respiro; il Nilo cambiò lato del letto per non disturbare; il gatto si alzò e fece finta di avere un appuntamento. Poi, con la grazia di un direttore d’orchestra invisibile, ripartì tutto: prima i bus, poi i taxi, poi i pensieri. Il Maestro, con gesto misurato, infilò una diagonale metafisica tra un cantiere e un panettiere volante. “Eccoci nella Quinta Corsia,” disse. “Non esiste,” obiettai. “Appunto.

Arrivammo. L’edificio dei miei destini turistici ci guardò con aria di chi ha visto molte cose e non si offende più di nulla. Pagai, ma il Maestro rifiutò tre monete: “Tienile: servono per la Dinastia che verrà.” Gli chiesi se il clacson, alla fine, servisse a capirsi. “No,” fece lui, “serve a far finta di capirsi. E a suonare. Ogni città ha il suo strumento: Parigi flauto, Berlino percussioni, Napoli mandolino. Il Cairo? Bebop su quattro ruote. Si suona male, spesso, ma quando ti riesce… ti porta da A a B passando per Z, che è la lettera più interessante.

Scese, accucciò la vettura come si addormenta un cane, e lasciò che l’ingorgo gli crescesse attorno come un’edera affettuosa. Io mi voltai un’ultima volta: il Maestro era già dissolto nella partitura, un minuscolo punto di ottone in una partitura infinita. Il traffico ricominciò il suo improvviso, e capii che, in fondo, qui nessuno viaggia: tutti improvvisano. E arrivano lo stesso.

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