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Contro la superstizione e l'ideologia woke: Michelangelo non è un suprematista

  • Immagine del redattore: The Introvert Traveler
    The Introvert Traveler
  • 4 mag
  • Tempo di lettura: 4 min
Michelangelo - La creazion

C’è una superstizione nuova che infesta le cattedre universitarie, i comitati editoriali, le sale da conferenza e le pagine d’opinione dei media anglofoni: il delirio ideologico del politicamente corretto, o per dirla con la precisione filosofica che merita, la sua mutazione post-capitalista in forma di neolingua repressiva e autoimmunizzante, come direbbe Costanzo Preve. Un culto laico senza teologia, un tabù linguistico travestito da emancipazione. Nell'espressione debordante del proprio furore ideologico — tanto patetico quanto inquietante — l'onda di piena politicamente corretta è riuscita a rivolgere la propria ottusa insipienza anche contro un soggetto prediletto da questo blog; mi riferisco alla grottesca accusa rivolta a Michelangelo Buonarroti dalla vestale di turno dell'ideologia woke: Robin DiAngelo, sociologa americana salita alla ribalta con quel compendio di banalità colpevolizzanti noto come White Fragility.

Secondo DiAngelo, la Creazione di Adamo affrescata nella Cappella Sistina sarebbe “l’espressione simbolica della convergenza fra patriarcato e suprematismo bianco”. Affermazione tanto assurda quanto istruttiva: non dice nulla su Michelangelo, ma moltissimo sulla crisi epistemologica della cultura angloamericana contemporanea, che ha perso (o più probabilmente non ha mai avuto) ogni contatto con la storia, con l’arte e con la filosofia. Il “Dio bianco barbuto” dell'affresco michelangiolesco, nel delirio woke, diventa l’araldo di un potere coloniale che non esisteva né nel pensiero dell'artista né nel suo contesto storico, filosofico o culturale.


L’anacronismo come crimine intellettuale dell'ideologia woke

Attribuire al Buonarroti, artista rinascimentale del primo Cinquecento, una coscienza “suprematista bianca” significa compiere un atto di manipolazione ideologica tanto eclatante da sfiorare la pornografia intellettuale. La categoria di “suprematismo bianco”, così come viene usata nel dibattito odierno, è frutto della storia americana — non del Rinascimento italiano. In Italia nel 1511 non esisteva il concetto di “razza bianca”, né un sistema simbolico che ponesse la “bianchezza” come forma di potere etnico. Il riferimento simbolico alla pelle chiara nelle arti europee era legato alla luminosità, alla purezza spirituale, alla trasfigurazione neoplatonica del corpo, non a una gerarchia razziale; il riferimento sostanziale era a una società che era essenzialmente bianca, dove la questione razziale non si poneva se non in modo estremamente marginale.

L’abominio di DiAngelo, oltre che storiografico, è epistemico: proietta retroattivamente la sua ideologia su epoche che non la contemplavano. Come ha notato acutamente Kayla Bartsch su National Review, questa è una forma perversa di riduzionismo: trasformare tutta la produzione culturale in un palinsesto di oppressione. Si perde così ogni comprensione storica, ogni complessità, ogni tensione interna all’opera. Resta solo il riflesso narcisistico dell’ideologia dominante nelle élite accademiche americane.


Il politicamente corretto come “divide et impera” postmoderno

Costanzo Preve l’aveva compreso con decenni di anticipo: il “politicamente corretto” è l’ideologia secolare dell’Impero globale, la sua religione civile. Serve non a emancipare, ma a frammentare: sostituire la lotta di classe con la competizione tra identità, rendendo ogni soggetto prigioniero della propria “categoria protetta”. È il "divide et impera" dell’era post-fordista: non più proletari contro borghesi, ma gay contro etero, neri contro bianchi, donne contro uomini, e — in questo caso — woke contro Michelangelo.

L’egemonia neoliberale americana ha capito che per perpetuarsi deve culturalizzare il conflitto, spostarlo dal piano materiale a quello simbolico. Così, mentre i salari stagnano, le guerre si moltiplicano e i monopoli si consolidano, l’intellighenzia si preoccupa del colore dell’epidermide di Dio nella Sistina. Ciò che una volta era mistica, oggi è semiotica: ma l’effetto è lo stesso. Interdire, scomunicare, disciplinare.


Michelangelo, artista tragico e universale

Michelangelo non fu né un patriarca né un suprematista, ma un artista tragico, tormentato, immerso in una visione dell’uomo segnata da tensione metafisica. La Creazione di Adamo non rappresenta l’egemonia di una razza, ma il momento metafisico della scintilla tra essere e coscienza. È il gesto aristotelico-cristiano che separa l’uomo dagli animali, lo colloca nell’ordine divino. Non è biologia, è teologia. Non è dominio, è anelito.


Conclusione: chiamare le cose con il loro nome

Le dichiarazioni di Robin DiAngelo non sono solo sbagliate: sono scempiaggini deliranti. Non perché offendano l’arte, ma perché offendono la ragione. Sono l’epifenomeno di una cultura che ha sostituito l’analisi con la reazione, la storia con l’ideologia, il senso con il risentimento. Occorre chiamarle con il loro nome: nient’altro che superstizione woke, pseudoteologia di una classe dirigente che ha disimparato a pensare, ma non a colpevolizzare.

In questa battaglia culturale, Michelangelo va difeso non solo come artista, ma come ultimo baluardo contro l’oblio della storia. Che lo si lasci riposare in pace nei suoi affreschi, lontano dai deliri dei fanatici contemporanei, vagheggiando che Michelangelo, con il suo schietto e graffiante umorismo toscano e la sua profonda conoscenza dell'opera di Dante, abbia raffigurato, primo e unico nella storia dell'arte, il culo di Dio come risposta ideale alle scempiaggini moderne: è così rassicurante pensare a Dio che, come il diavolo Barbariccia nel XXI canto dell'Inferno, fa trombetta del suo culo in risposta alle idiozie del politicamente corretto; un divino, trombante, biblico peto che spazza ogni fanatismo e ogni delirio ideologico nella bolgia più profonda dell'inferno dantesco.


Michelangelo - Il culo di Dio

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