Dove mangiare a New York: House of Joy. Tipo "Grosso Guaio a Chinatown", ma col dim sum.
- The Introvert Traveler
- 1 mag
- Tempo di lettura: 6 min

Ultima visita: dicembre 2024
Voto: 10/10
Prezzo: €€/€€€
Entrare da House of Joy, nel cuore pulsante di Chinatown, è come fare un viaggio nel Guandong, ma senza usare le miglia aeree. La prima cosa che colpisce è che, nonostante il numero non trascurabile di turisti e newyorkesi, la stragrande maggioranza degli avventori e, ovviamente, del personale, sono cinesi; è cinese la lingua parlata; sono cinesi i modi, l'abbigliamento, gli arredi. Non è il solito stereotipo allestito per dare l'illusione della Cina a chi vuole mangiare involtini primavera e riso alla cantonese; qui per radicamento culturale ed estensione territoriale siamo più nei dintorni dello Stato-enclave.
La seconda cosa che colpisce, dopo la ventata di autenticità etnica, infatti, sono le dimensioni dell'impresa; a occhio, si tratta di 500 coperti, serviti da numerose decine di camerieri che vorticano operosamente tra i tavoli, camminando con passi frenetici sopra a un metro di denso, palpabile, sonoro baccano, talmente intenso da diventare una componente dell'esperienza sinestetica fatta di colori kitsch, odori, sapori e baccano.
E poi c'è lui, il direttore d’orchestra, il banditore dei tavoli. La sua voce precede di molto l'arrivo di fronte alla facciata del locale e l'avvistamento della lunga fila in attesa. House of Joy, infatti, è uno sbalorditivo e perfetto ingranaggio di economia real time; i 500 coperti, infatti, vengono continuamente saturati dal continuo flusso di avventori che attendono pazientemente, fino ad un'ora, davanti all'ingresso la chiamata del proprio numero che viene attribuito dal banditore che, munito di un taccuino di carta e di microfono headset, attribuisce, distribuisce e chiama, senza soluzione di continuità, i clienti; ogni seggiola libera viene saturata non appena si libera; allo stesso tavolo possono essere seduti 2/3 gruppi diversi di persone, pur di massimizzare il risultato di questo tetris del Sol Levante. E così gli avventori attendono in massa a questo rito di fronte all'ingresso del locale, come a un Angelus della ristorazione, mentre gli altoparanti riversano sulla strada le chiamate cadenzate del banditore. Attenzione a non allontanarsi per sgranchirsi le gambe; i numeri non seguono la sequenza naturale, ma i posti disponibili; il vostro numero verrà chiamato rigorosamente nel momento esatto in cui vi sarete assentati. È il karma di Chinatown. È il Lopan della ristorazione.

Il Business Plan (Apocrifo ma Credibile)
Vengono le vertigini a pensare ai numeri di questa macchina infernale, aperta in continuazione dalle 9 di mattina alle 11 di sera, con i suoi 500 coperti e il suo incessante turnover. Quale percentuale della popolazione cinese lavora nel segreto di quelle cucine? Quale ebitda macina quel registratore di cassa che striscia incessantemente carte di credito? Quanti eserciti di terracotta potrà contenere il magazzino che alimenta di continuo la produzione con quintali di gamberi, maiale, zampe di pollo, tofu, funghi neri, polpa di granchio per alimentare migliaia di persone al giorno? In che misura questo singolo ristorante contribuisce al traffico di New York con autoarticolati che si muovono dai mercati centrali per rifornire incessantemente le cucine di prodotti freschissimi?
Immaginate:
500 coperti attivi
Un turnover di 10 clienti al minuto, ovvero circa 60.000 anime a settimana, metà delle quali ignare di cosa abbiano mangiato
50 camerieri in sala, più agili di un montacarichi al Nasdaq
Una cucina con cuochi invisibili, probabilmente clonati in un bunker sotto il Manhattan Bridge
Ogni giorno House of Joy consuma:
una tonnellata di farina di riso,
il 12% dei gamberi dell’Atlantico,
e un terzo della capacità logistica dell’intera Chinatown. Si mormora che un decimo del PIL cinese venga riconvertito in baozi solo per questo posto.Non è un ristorante: è una repubblica indipendente con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Appena varcata la soglia della sala (più grande del terminal 2 di JFK), si entra in una coreografia infernale di carrelli trainati da camerieri che sembrano usciti da una simulazione cinese di Matrix. Ce ne sono almeno cinquanta, tutti rigorosamente trilingue: Cantonese, Mandarino e Lingua del Corpo. Se provi a chiedere in inglese cos’è quella cosa gelatinosa e verde che ti fissava dallo steamer, ti rispondono con una raffica di vocali dal tono nasale e un'espressione interrogativa che sollecita una tua risposta. Perché qui il modello di business, come detto, è il servizio real time; nel momento in cui vi sedete al tavolo, tutti i piatti presenti sul menu sono già stati prodotti e stanno circolando nel locale su decine di carrelli; non avete il tempo di sedervi che già il primo cameriere si avvicina proponendovi 4 o 5 delle numerose portate presenti sul menu e non dovete fare altro che scegliere quella che solletica più la vostra curiosità; quando la coppia che occupava il nostro stesso tavolo ha terminato il pasto e si è alzata, i camerieri hanno cambiato la tovaglia e riassettato il tavolo... mentre noi continuavamao a mangiare e senza interrompere il nostro pasto!

Ma è qui che nasce il gioco. La sfida. Il Dim Sum Royale. Ogni piatto è un atto di fede: scegli in base al colore, alla lucentezza, al vapore e all'aspetto sommario. È come Tinder, ma con gli gnocchi di riso. Ordini un piatto pensando che sia una zuppa di verdure, invece è un passato di aglio; può accadere che qualche cameriere abbia la compassione di indicarti sul menu a cosa corrisponde il piatto che vedi sul carrello, ma il tempo di risposta non deve superare i pochi secondi. Prendere o lasciare. The show must go on. Ma la cosa sensazionale è che qualsiasi cosa ordiniate nell'adempimento di una professione di fede, è deliziosa; dimenticate i ristoranti cinesi vicini alla stazione termini di Roma, dove i NAS esitano a entrare per timore di sparire per sempre alla vista dei propri cari ed essere serviti arrosto in qualche pranzo domenicale. Qui le materie prime sono di una qualità sopraffina, le verdure, il pesce, il maiale hanno tutti una caratteristica comune: li porti alla bocca e immancabilmente resti stupito per l'intensità, la qualità e la freschezza dei sapori. E come sono eccellenti le materie prime, sono superlative le lavorazioni; i dim sum si sciolgono in bocca, i baozi sono la più soffice e seducente leccornia che abbiate mai assaporato, i mochi possono rivaleggiare (pur nella diversità della realizzazione) con i prodigi di Nakatanidou.
Un'unica nota negativa, perché una recensione entusiastica deve sempre essere temperata con qualche elemento di obiettività: i mochi sono disponibili solo con il ripieno di durian. Ora, non so se vi siete mai confrontati con questo immondo frutto e non posso essere certo io a eradicare dalla cultura cinese la consuetudine di consumare questo frutto, né posso spiegare a una popolazione di più di un miliardo di abitanti che al mondo esistono anche il mango, la papaya, la banana, la mela... ma quando addentate un mochi al durian, e lo ripeto, i mochi di House of Joy sono sopraffini... ma, dicevo, quando addentate un mochi al durian, nella vostra bocca si mischiano fragranze di cessi pubblici carenti di manutenzione che si infrangono con effluvi di aringa marcia e proprio non capisci perché una cultura culinaria che produce tali prelibatezze debba includere l'uso di tale immondo ingrediente. Ma io sono uno strenuo assertore dell'approccio ecumenico alle culture e alle cucine del mondo, anche quando ciò comporti vincere qualche mio preconcetto occidentale, per cui i mochi al durian li ho comunque assaggiati e come insisto nel mangiare piatti al coriandolo, anche se mi sembra di gustare uno stufato di cimici, insisterò nel provare i mochi al durian fino a quando quella voce nel mio cervello non smetterà di dire "ma non si potrebbero avere dei mochi con il ripieno di fagioli dolci come li fanno in Giappone?".

E il prezzo? Ti alzi dal tavolo pieno come dopo un battesimo calabrese, hai mangiato come tre persone e paghi meno che per un toast all’aeroporto. Un miracolo economico e digestivo.
Nella città dove un cappuccino con un muffin costa 25 dollari, un dim sum medium costa 4,5 dollari; per questo prezzo a Brooklyn non ti danno nemmeno mezzo caffè filtrato e ti fanno pure sentire in colpa per l’impronta ambientale e qui siamo nel mezzo di Manhattan!
Dove mangiare a New York: ristorante House of Joy.
In conclusione, House of Joy non è solo un ristorante. È un film di John Carpenter riscritto da Wong Kar-wai e prodotto da Gordon Ramsay in preda a una crisi di nervi. È la prova che il caos può essere delizioso, se è servito con carrelli roventi e senza una parola di inglese. Se cercate un posto dove mangiare a New York, aggiungete House of Joy alla vostra lista.
Voto: 10 ravioli su 10.
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