L'Arca di San Domenico (Bologna): un'opera collettiva dei piu' grandi nomi della scultura italiana
- The Introvert Traveler
- 15 lug
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Ultima visita: maggio 2025
Mio giudizio: 8/10
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In un altro post, a cui rinvio, ho raccontato la figura di Niccolò dell'Arca, la sua importanza nella storia della scultura italiana, il suo ruolo di figura chiave nel passaggio dallo stile gotico a quello rinascimentale e quanto questo grande artista abbia legato la propria opera alla città di Bologna. Due in particolare sono le opere a cui Niccolò deve la propria fama, ma se la prima, il Compianto del Cristo Morto, fu accolta con sussiego dai suoi contemporanei, la seconda ebbe una tale fame che Niccolò vi legò il proprio stesso nome; mi riferisco ovviamente all'Arca di San Domenico, conservata nell'omonima basilica di Bologna, che pur essendo il lavoro collettivo di alcuni dei più straordinari scultori che l'Italia abbia espresso tra il 1200 e il 1400, è legata soprattutto al nome di Niccolò.
L'Arca di San Domenico, infatti, è di fatto un'opera collettiva che si è stratificata nel corso di due secoli passando da essere un semplice sarcofago fino a diventare un imponente monumento che testimonia l'evoluzione dello stile artistico della scultura italiana dal gotico fino al Rinascimento; a realizzarne le varie componenti furono infatti, nel corso dei secoli, niente meno che: Nicola Pisano, Arnolfo di Cambio, Niccolò dell'Arca, Alfonso Lombardi e Michelangelo; un'ultima aggiunta nel XVIII secolo da parte del francese Jean-Baptiste Boudard a mio giudizio non ha contribuito a migliorare l'opera e, a mio personalissimo giudizio meriterebbe di essere ricollocata altrove.
Il primo nucleo gotico dell'Arca di San Domenico a Bologna: Nicola Pisano e la sua scuola
San Domenico di Guzmán, fondatore dell’Ordine dei Predicatori, morì a Bologna nel 1221 e fu inizialmente sepolto in una tomba semplice nel coro della chiesa di San Nicolò delle Vigne (l’attuale basilica di San Domenico). Il culto del santo si diffuse rapidamente, e già nel 1233 – dieci anni prima della canonizzazione avvenuta nel 1234 – si decise di traslare le sue spoglie in un’arca più degna. La commissione venne affidata a un'équipe di scultori guidata da Nicola Pisano, sebbene la sua presenza effettiva nel cantiere sia ancora oggetto di dibattito: alcuni studiosi propendono per una sua supervisione o per l’intervento diretto in alcune scene, mentre altri ritengono che lo stile del gruppo sia piuttosto da attribuire a maestranze di origine renana o francese formatesi nel clima gotico cistercense.
In ogni caso, la realizzazione della prima arca si data tra il 1264 e il 1267; questo primo nucleo, di fatto un sarcofago a forma di parallelepipedo costituisce non solo un importante documento dell’arte gotica in transizione, ma anche una pietra miliare nello sviluppo della plastica medievale dell’Italia settentrionale. A questo primo impianto lavorarono scultori formatisi nell’alveo del gotico francese, che tuttavia si confrontarono con la tradizione romanica emiliana e con il nascente classicismo toscano. La genesi, la struttura e lo stile di questo primo nucleo meritano dunque un’analisi rigorosa e articolata.
In questo primo nucleo è evidente lo stile gotico sia nelle forme taglienti e un po' spigolose delle figure umane che nella rigida composizione delle figure che, pur con le dovute differenze da un'opera all'altra, è tipica sia del lavoro di Nicola Pisano che del suo figlio Giovanni.

I rilievi narrano in dieci riquadri momenti salienti della vita e dei miracoli di San Domenico, secondo una sequenza che riflette il modello agiografico dell’epoca: la predicazione, l’esorcismo, il salvataggio di un giovane cavaliere caduto da cavallo, la moltiplicazione dei pani, la resurrezione di Napoleone Orsini, l’apparizione postuma del santo. Le scene sono affollate da figure agitate, colte in atteggiamenti dinamici e teatrali, quasi fossero quinte mobili su un palcoscenico sacro.
Lo stile dei rilievi manifesta una chiara rottura con la tradizione romanica bolognese: le figure sono allungate, dai panneggi profondamente incisi, e i volti tendono a esprimere emozioni vivide, con bocche aperte, sopracciglia arcuate, mani protese in gesti eloquenti. Questi tratti rimandano all’espressività nordica di matrice gotica, ma anche alla lezione classicheggiante introdotta da Nicola Pisano nel pulpito del Battistero di Pisa.
Non mancano suggestioni francesi: le composizioni serrate, le architetture ogivali di sfondo, la tensione ascensionale delle pose rivelano contatti con i cantieri gotici d’Oltralpe, forse mediati dai circoli francescani o cistercensi attivi nell’Italia padana. Tuttavia, l’approccio narrativo mantiene un impianto didascalico tipico della scultura tardo-romanica: si pensi alla frontalità di alcune figure, alla gerarchia delle dimensioni o alla ridondanza simbolica degli attributi.
La resa anatomica, pur ancora stilizzata, mostra una volontà di maggiore naturalismo rispetto ai modelli coevi: i corpi emergono dai panneggi, i movimenti suggeriscono uno spazio tridimensionale, i gesti instaurano un dialogo interno tra i personaggi. Questo equilibrio tra narrazione, pathos e struttura formale costituisce uno degli elementi di maggiore novità dell’opera. E' evidente il tentativo in corso di affrancarsi da una certa ingenuità degli stilemi della scultura gotica per evolvere verso un modello naturalistico più evoluto; siamo di fronte ai primi vagiti di quello che diventerà il rinascimento e questo processo evolutivo si dipana all'interno di questa opera che abbiamo davanti agli occhi, con gli apporti successivi degli altri grandi maestri che l'hanno sviluppata. L'arca è un vero e proprio manuale di storia dell'arte!
Il secondo nucleo: la cimasa di Niccolò dell'Arca
L’arca non era destinata solo alla custodia delle reliquie, ma rappresentava un vero e proprio strumento di predicazione visiva. I frati domenicani, maestri della parola, riconoscevano nel linguaggio delle immagini un veicolo potentissimo di dottrina e di emozione. In tal senso, la scultura del sarcofago va letta come una summa teologica per immagini: ogni episodio rafforza il carisma taumaturgico e profetico del fondatore, promuovendone il culto tra i fedeli e la legittimazione dell’Ordine nei confronti dell’autorità ecclesiastica.
Il successo dell’opera fu tale che da subito si sentì l'esigenza di ampliare l'opera, facendo di un semplice sarcofago un vero e proprio monumento. L'ampliamento dell'opera fu così affidato a Niccolò dell'Arca.
L’intervento di Niccolò dell’Arca sull’Arca di San Domenico costituisce uno degli episodi più alti e significativi della scultura italiana del secondo Quattrocento, non solo per il valore formale delle aggiunte ma per l'intenso dialogo che esse instaurano con il precedente duecentesco. Chiamato a completare un'opera già densa di significati religiosi, liturgici e simbolici, Niccolò si confrontò con un compito che imponeva rigore iconografico, sensibilità stilistica e un’eccezionale capacità di sintesi tra tradizione e innovazione. Il suo apporto si configura non come semplice ornamento, ma come trasformazione concettuale del monumento, trasponendo lo spirito gotico dell’originale in un registro pienamente rinascimentale e drammatico. L'intervento di Niccolò sul lavoro di Nicola Pisano è quasi un lavoro filologico che funge da trait d'union tra la tradizione e il nuovo stile rinascimentale. Quando Niccolò mette mano all'opera gotica (probabilmente nel 1469) Donatello è già morto, la Cappella Brancacci è già stata realizzata da mezzo secolo, Piero della Francesca ha già realizzato alcuni dei suoi principali lavori, il Rinascimento è già una realtà. Eppure Niccolò non stravolge l'opera che nelle mani, ma tenta una sintesi, riuscitissima, tra i due stili. Il suo incarico prevedeva la realizzazione del coronamento del sarcofago, rimasto incompleto nella sua parte superiore. Si trattava quindi di creare una nuova struttura plastica sopra il parallelepipedo duecentesco, senza alterarne la leggibilità narrativa né comprometterne l'equilibrio iconografico. Il risultato fu una delle più originali e dinamiche concezioni scultoree del Rinascimento padano.

Niccolò progettò un insieme articolato e piramidale, sviluppato su due livelli principali. Alla base del coronamento, egli collocò figure di santi in piedi, statue a tutto tondo poggiate su piccoli piedistalli, disposte lungo il perimetro del coperchio dell’arca. Queste includono santi dell’Ordine domenicano (tra cui san Tommaso d’Aquino e san Pietro Martire), oltre ad altre figure importanti per la Chiesa universale. Il registro superiore culmina in una edicola architettonica, nella quale Niccolò scolpì un gruppo composito raffigurante la Madonna col Bambino tra due angeli: un fulcro devozionale e teologico che sottolinea la centralità di Maria nel pensiero domenicano.
Complessivamente, l’impianto si presenta come una struttura a cuspide, che conduce l’occhio verso l’alto secondo un movimento ascensionale coerente con la simbologia della gloria celeste. Questo coronamento, oltre ad arricchire la verticalità del sarcofago, ne rinnova anche la funzione ideologica: dal racconto biografico di un santo si passa all’esaltazione della sua santità come fondamento dell’ordine divino e del trionfo della Chiesa.
l linguaggio formale adottato da Niccolò dell’Arca in questo intervento è di straordinaria tensione espressiva e varietà tipologica. Le statue a tutto tondo dei santi si distinguono per il trattamento individualizzato dei volti, la ricchezza dei panneggi e la vitalità dei gesti. Ogni figura sembra animata da un diverso pathos interno: lo sguardo assorto di san Tommaso contrasta con la postura estroversa di altri santi, creando una teatralità composta che risente ancora della lezione gotica, ma già innervata da un naturalismo di matrice rinascimentale.
Particolarmente significativa è la compenetrazione tra struttura architettonica e figurazione scultorea: le statue si relazionano con la cornice che le ospita, rompendo ogni rigida frontalità. L’edicola sommitale, invece, si presenta come una vera “scena sacra”, in cui le figure della Vergine e del Bambino sono idealizzate ma non astratte: si coglie in esse una dolcezza umana, un pathos contenuto che ricorda certi modelli toscani (Donatello, ma anche Desiderio da Settignano), mediati da una sensibilità nordica.
Il trattamento dei materiali è raffinato: Niccolò adopera il marmo con estrema maestria, alternando superfici levigate a zone minuziosamente cesellate. Il panneggio, in particolare, diventa occasione per uno studio quasi manieristico delle pieghe, che da un lato avvolgono il corpo con eleganza plastica, dall’altro lo rivelano nella sua tensione interna.
L’intervento di Niccolò dell’Arca trasforma l’arca da puro reliquiario narrativo in un monumento trionfale di teologia scolastica e gloria ecclesiale. Il coronamento non è semplice decorazione, ma gerarchizzazione visuale dei significati: alla base si trova la narrazione storica della vita del santo (Duecento), al centro la comunità dei santi testimoni (Quattrocento), in sommità il mistero cristologico e mariano. La scansione verticale si fa così veicolo di una sintesi escatologica: dalla vita terrena alla contemplazione celeste.
l secondo nucleo dell’Arca di San Domenico rappresenta una delle vette della produzione di Niccolò dell’Arca, non solo per il virtuosismo tecnico ma per la straordinaria intelligenza plastica con cui egli riesce a trasformare un'opera già conclusa in sé in un organismo vivo, coerente, narrativo e teologico. Il suo apporto segna il punto di equilibrio tra la forza dinamica del gotico e il rigore compositivo del Rinascimento, fondendo plasticità drammatica e costruzione dottrinale.
La sua opera sull’Arca non è un semplice ampliamento, ma un commento scultoreo, un glossario tridimensionale che arricchisce la “scrittura marmorea” duecentesca senza mai sovrastarla, ma anzi prolungandone lo spirito in una nuova epoca della forma.
E' sorprendente constatare la capacità di Niccolò di esprimere in quest'opera uno straordinario rigore estetico, tanto più se si confronta che quest'opera con l'espressionismo e il pathos del Compianto del Cristo Morto, che tanto sollevò perplessità nei suoi contemporanei.

Il terzo nucleo: la stele di Alfonso Lombardi
Con l’intervento di Alfonso Lombardi nel 1532 si conclude il lungo processo di stratificazione artistica dell’Arca di San Domenico, già arricchita nei secoli precedenti da maestri gotici e rinascimentali.
Alfonso Lombardi è un nome oggi noto ai soli appassionati, ma all'epoca era una vera e propria star, a cui Vasari dedica ampio spazio nelle proprie Vite e destinatario delle principali committenze a Bologna. L'opera del Lombardi si colloca nel pieno Cinquecento e rappresenta l’ultima grande fase decorativa del monumento, integrandosi con sobria efficacia al complesso preesistente. La sua aggiunta riguarda il basamento marmoreo su cui poggia il sarcofago, arricchito da un ciclo scultoreo in altorilievo che raffigura momenti salienti della Traslazione delle reliquie di san Domenico.

Il ciclo realizzato da Lombardi si sviluppa sul fronte e sui lati del nuovo basamento, con una sequenza narrativa articolata in quattro riquadri principali, animati da una fitta presenza di personaggi in movimento: vi si riconoscono i frati domenicani, le autorità civili, i fedeli e i portatori della cassa reliquiaria. L’impostazione è fortemente teatrale: lo spazio si apre come un palcoscenico, e le figure sono disposte secondo una prospettiva quasi illusionistica, con l’intento di coinvolgere lo spettatore nella drammaturgia dell’evento sacro.
Con questo intervento si chiude il progetto dell’Arca, che da semplice custodia delle spoglie del santo diviene monumento civico e liturgico completo, sintesi di tre secoli di spiritualità, arte e identità bolognese. L'aggiunta di Lombardi non altera, ma incornicia e solleva l’intero complesso, contribuendo a una maggiore solennità d'insieme.
Con l'aggiunta del basamento il tragitto dell'arca attraverso i principali stili della scultura italiana tra il 1200 e il 1500 si potrebbe dire completo, ma manca ancora almeno una sensazionale addizione; Niccolò dell'Arca, infatti, nell'esecuzione della propria commessa non aveva del tutto portato a compimento il progetto, mancando la realizzazione delle statuette di tre santi al completamento dell'opera. Se è vero allora che l'Arca era destinata a essere, se non nelle intenzioni dei committenti, almeno di fatto nella storia dell'arte italiana, il risultato del lavoro di un vero e proprio dream team dei più grandi nomi della scultura dell'epoca, quale nome era destinato a completare la lista di questi grandi maestri se non il più grande di tutti: Michelangelo?

Il compimento dell'opera: Michelangelo
Il soggiorno bolognese di Michelangelo Buonarroti, sebbene breve e spesso considerato marginale nella sua carriera, si colloca in un momento cruciale della sua formazione e riveste un’importanza tutt’altro che trascurabile per la maturazione del suo linguaggio scultoreo. Michelangelo giunse a Bologna nell’autunno del 1494, all’età di diciannove anni, in fuga da Firenze, appena sconvolta dalla cacciata dei Medici e dall’instaurazione del regime repubblicano ispirato da Savonarola.
La sua partenza da Firenze fu, come ricorda Vasari, una fuga strategica per motivi politici e di sicurezza personale. Michelangelo, cresciuto sotto la protezione dei Medici (in particolare di Lorenzo il Magnifico), si trovò esposto ai disordini del nuovo regime. Riparò dunque a Bologna, dove trovò protezione presso Gianfrancesco Aldrovandi, nobile erudito e membro del Senato cittadino, che lo presentò al signore della città, Giovanni II Bentivoglio. Fu proprio quest’ultimo a garantirgli ospitalità e a commissionargli alcune sculture per l’Arca di San Domenico, nel contesto di una Bologna ancora saldamente signorile e culturalmente vivace.
Michelangelo rimase a Bologna per circa un anno, tra l’autunno del 1494 e il tardo 1495, ospitato nella casa degli Aldrovandi. Non si trattò di un soggiorno particolarmente fastoso o remunerativo: l’artista era ancora semisconosciuto, e le commissioni ricevute erano modeste, ma rappresentarono una prima prova pubblica di valore in un contesto artistico diverso da quello toscano. La sua presenza fu accolta con curiosità e rispetto: Bologna, allora snodo tra l’arte padana e l’influenza rinascimentale toscana, si rivelò un fertile terreno di confronto.
Il Michelangelo che lavora all'Arca è un Michelangelo giovanissimo, che alle proprie spalle ha sostanzialmente solo 3 opere: la Madonna della Scala, la Battaglia dei Centarui e il Crocifisso di Santo Spirito.
L'opportunità di lavorare all'Arca, un'opera di grande fama che dà lustro all'intera città di Bologna è quindi sostanzialmente il primo grande banco di prova per il giovane Michelangelo che qui ha la prima grande occasione di dimostrare il proprio valore.

Per l'Arca, Michelangelo realizza le tre statuette che non erano state completate da Niccolò: un angelo reggicandelabro collocato a destra della base dove in seguito troverà collocamento la stele di Lombardi, un San Petronio e un San Procolo per la Cimasa.
Queste tre opere non sono di per sé dei capolavori al pari della produzione successiva di Michelangelo, ma è seducente constatare la padronanza che il giovane Michelangelo già aveva a questo punto della sua acerba carriera; se il San Procolo manifesta una certa "grinta" che già lo fa spiccare, distinguendosi, in mezzo alle opere di Niccolò, vengono letteralmente i brividi nel contemplare l'angelo reggicandelabro pensando che di lì a poco Michelangelo darà vita a quell'opera sconvolgente che è la Pietà Vaticana; contemplando l'Arca stiamo assistendo al momento esatto in cui Michelangelo si appresta a spiccare il volo più vertiginoso che un artista abbia mai compiuto nella storia dell'umanità. Sotto questo punto di vista l'angelo acquisisce ben altro interesse; la posizione raccolta, l'anatomia vibrante, il panneggio burroso sono i sintomi di un artista che come i suoi stessi Prigioni nella Galleria dell'Accademia di Firenze, tende i muscoli per liberarsi dai vincoli che lo opprimono ed essere finalmente libero di esprimersi al pieno delle proprie immense capacità.
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